Articolo 7/2020

“Samba”

 Il Samba trova la sua origine a S. Salvador da Bahia, il porto dove venivano sbarcati gli schiavi rapiti nell’Africa Occidentale. Alla sua formazione contribuirono le tradizioni musicali di varie etnie africane, soprattutto Joruba e Naghò. Nel Samba originario (bajano) troviamo miscelati i ritmi delle liturgie di varie divinità appartenenti alle religioni di vari popoli africani, jongo, cateretè, batuca, bajao ed altri.

Ma non vogliamo parlare di questa famosa danza, il Samba a cui ci riferiamo è un ragazzo nato e cresciuto nella Nuova Guinea, un Africano che ha preso il suo nome, probabilmente, da un suo antenato che probabilmente secoli prima era stato fatto schiavo e sbarcato in brasile.

Samba viveva a Papua con la sua famiglia; quando era ancora un ragazzino venne mandato dal padre a lavorare nel terreno di famiglia; questo era praticamente in mezzo al deserto e Samba inizia a sognare una nuova terra, un paese dove possa realizzare i suoi sogni.

 Tante volte abbiamo letto o sentito parlare del come, su come o del perché uomini, donne, bambini e ragazzi scappano dai loro territori; ci siamo formati un’idea positiva o negativa su cosa sia l’accoglienza e l’abbiamo fatto prendendo come riferimento quello che sui social o sui telegiornali ci dicono; altre volte crediamo di avere un’idea “giusta” semplicemente perché tifiamo per una certa ideologia politica giustizialista in alcuni casi, garantista in altri.

Al centro di ascolto abbiamo formato la nostra idea di accoglienza vivendo ogni giorno le persone che arrivano carichi di speranza, ma con i segni visibili e non della stanchezza, delle atrocità subite; vivono con la paura di parlare addirittura per pronunciare il loro nome; noi li conosciamo e come sempre non vogliamo imporre nulla al lettore, riteniamo che l’uomo sia così intelligente che leggendo lo spaccato di vita davvero vissuto da un nostro “fratello” possa essergli da stimolo per mettere in discussione la propria idea eventualmente distorta sul perché migliaia di persone scappano abbandonando tutto per trovare un po’ di pace SE riescono a sconfiggere la morte.

 Parlavamo di Samba.

Un giorno conosce un suo coetaneo che come lui lavorava il terreno di famiglia e decidono di partire. Si lasciano alle spalle la famiglia, la povertà e iniziano il loro viaggio verso il Senegal, Mali, Niger e la Libia. Attraversano queste nazioni nell’arco di più settimane con molteplici espedienti, con le tasche vuote e con loro solo uno zaino e qualche litro d’acqua.

L’ultima viaggio verso la Libia lo fanno a bordo di un’auto con 18 persone dentro, di notte si viaggia e di giorno si riposa per paura di essere scoperti dall’esercito.

Arrivati in Libia vengono accompagnati in una struttura, vengono invitati a riposare e di aspettare la nave che li porterà via da quel territorio dove esiste solo la morte. Non hanno la forza per gioire riescono solo a dormire e a sognare la loro nuova vita e a sognare il cibo e l’acqua che il quel momento non hanno. Dopo quattro giorni di totale isolamento scoprono di essere in carcere e che possono uscire da lì solo pagando; ovviamente non sarà così perché per pochi che avevano dei soldi e che hanno dovuto “pagare” per la loro libertà sono stati i primi ad essere mandati ai lavori.

Da giorni cerco di riflettere su questa cosa e non riesco a trovare le parole per descrivere di cosa sia capace l’uomo; si può parlare di inganno, d’ipocrisia, di meschinità e di miseria dell’anima. Un uomo che per pochi spiccioli consegna a morte certa i suoi simili; perché le carceri libiche sono qualcosa di indescrivibile, Samba ancora oggi non riesce a parlare delle atrocità che persistono in quei luoghi, riesce solo a balbettare qualche frammento che gli riaffiora per poi chiudersi tra le lacrime in un perfetto mutismo. Come può un uomo essere capace di tanto orrore?  Samba viene letteralmente incatenato al suo amico e costretti a lavorare; si dividevano un tozzo di pane al giorno e un sorso d’acqua.

A questo punto del racconto a Samba gli si bagnano gli occhi ripensando al suo amico, un omone costretto ad essere schiavo che tenta di ribellarsi a quella vita così indegna da essere chiamata tale; impazzisce, va fuori testa perché non sopporta la durezza di quella vita, così un giorno, uomini dell’esercito gli sparano perché considerato inutile e pericoloso; inutile perché l’uomo schiavo viene mantenuto in vita fino a quando è capace di svolgere il suo lavoro; pericoloso perché un uomo schiavo, e privo di senno oramai, può indurre i propri compagni “schiavi” a ribellarsi. Viene ordinato a Samba di scavare una fossa e buttarci dentro il suo amico.

Pensiamo a immaginare la simbiosi che può crearsi tra due uomini legati, letteralmente legati, giorno e notte, uomini che lavorano e dividono un tozzo di pane e un sorso d’acqua, che dividono la stanchezza, la sofferenza e la paura, uomini che dividono la stessa maledetta sorte. Proviamo a immaginare quale trauma possa subirsi ad essere costretti a seppellire l’amico in quel modo così barbaro, l’amico con cui aveva condiviso il sogno di una vita normale, l’amico con cui aveva condiviso il viaggio e la prigione.

Samba riesce a scappare dopo due o forse tre anni di prigionia (non ricorda quanto tempo è rimasto in carcere da schiavo) mentre scava la fossa, mentre è lì a trovare un briciolo di forza per scavare la buca decide di usare quel briciolo di forza per scappare. Samba ci riesce e riesce a raggiungere la costa. Non sa spiegarci come ha fatto a scappare, forse assieme a quel briciolo di forza e all’esasperazione ha trovato il coraggio di vivere o morire perché nelle carceri Libiche si è sicuri di morire, scappando forse si sopravvive. Raggiunge Lampedusa non prima di vedere naufragare altri uomini, già, perché alla tragedia umana non c’è fine. Samba aggiunge particolari che mi fanno pensare a cosa succede in quei posti. Spesso si dice che per potere partire da quelle zone bisogna pagare, ed è vero per alcuni versi, ma spesse volte succede che i prigionieri vengono caricati su quelle barche perché non più in grado di lavorare per malattia e perché si diventa delle larve; esiste poi il “mito” dello scafista che non è, come di solito sentiamo dire, un organizzatore del viaggio, ma semplicemente un altro “disgraziato” come gli altri costretto dai Libici a tenere il timone della improvvisata barca.

Quando Samba ha raccontato questa parte della sua vita ha spesso utilizzato le parole; Amico, scappare, i Libici, costretto, dividere, stanco, piangere, urlare, nascondere, picchiare, ma anche usato la parola sognare che in mezzo a tanto orrore sembra impossibile poter sognare e invece ciò che tiene in vita un uomo è la speranza che equivale a sognare e a desiderare. Queste parole ho voluto utilizzarle spesso anche io perché facendo un lavoro di Brainstorm, tempesta di cervelli, uscirebbe fuori che ognuno di noi ha il dovere, da cittadini, da uomini liberi e di buoni costumi, di impegnarci affinché cessi in questo mondo l’indifferenza e l’egoismo, il falso perbenismo, il falso mito dell’uomo nero, perché in questa terra siamo tutti figli di Dio e siamo tutti uguali con i nostri sentimenti, con i nostri sbagli e con i nostri sogni, tutta l’umanità dovrebbe essere messa nelle condizioni di perseguire i sogni, la felicità, la libertà fisica e di pensiero.

Oggi Samba vive ad Agrigento, è l’esempio di come una buona accoglienza e un piano serio di inserimento nel nostro tessuto sociale può far nascere un uomo nuovo; grazie alla sua capacità di mediatore e al suo bagaglio enorme di esperienza, è stato assunto dal centro a tempo indeterminato, dedica il suo tempo al lavoro e a risanare quella parte di vita che fin da giovanissimo gli ha fatto scoprire di cosa è capace un uomo e soprattutto può non più sognare di essere felice, ma di esserlo davvero.

 Don Vito Scilabra

Carmelo Vetro

  

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