ART. 1/22 Rieducare o punire?

Leggere, disegnare, scrivere, scolpire, fare teatro in carcere assume un valore speciale, ha il sapore della libertà perduta. Per questa ragione chi entra nelle prigioni del nostro Paese da “libero”, da volontario con in mano libri, pennelli, progetti artistici, culturali o ricreativi in testa compie un atto di puro impegno civile, di attenta e scrupolosa solidarietà.

 

dovrebbero essere molti più interventi capaci di sanare situazioni drammatiche di degrado e sovraffollamento dei nostri istituti di pena e proprio per questo ancora più essenziale e prezioso diventa l’impegno profuso dalle associazioni di volontariato carcerario e da altre realtà impegnate a mettere in atto il dettato costituzionale della “rieducazione” di chi ha commesso un reato.

In carcere occorrono piccoli gesti concreti che servono ad alleviare il disagio di una vita “ristretta”, non solo quindi progetti teatrali o letterari, ma anche e soprattutto serve acquisire conoscenze spendibili “fuori” una volta tornati alla vita reale, una volta “recuperati” alla società e alle sue regole.

Bisognerebbe ascoltare con più interesse le parole dei detenuti; sono espressioni di sentimenti e di emozioni di chi sta compiendo un viaggio difficile, di chi fa i conti ogni giorno con il proprio passato e tenta di immaginare un futuro. Ascoltare le “voci da dentro” diventa allora un esercizio per non dimenticare il significato, profondo e imprescindibile, dei diritti che vanno riconosciuti a ciascun essere umano.

Spesse volte assistiamo ad espressioni quale quelle che bisogna buttare le chiavi e far marcire tutti in carcere e in verità esistono reati così brutti che è difficile poter parlare di diritti da garantire, ma il “diritto” nella sua forma astratta conta sempre, innanzitutto, sulla collaborazione e cooperazione dei cittadini; quando non può farlo, e deve inasprire il suo aspetto coercitivo, vuol dire che c’è qualcosa che non va  in termini di giustizia  o in termini di mancata corrispondenza tra la regola e il  valore sociale.

Quel che è parso più evidente in questo periodo è che i cittadini, quando sono chiamati a rispettare le regole, sono sempre chiamati a fare (o non fare) qualcosa a qualcun altro. Ancora prima del rapporto con lo Stato, è importante quello che facciamo agli altri, ai nostri simili, a coloro con cui siamo in relazione. Il diritto in questo caso ha mostrato in maniera più evidente tale caratteristica “orizzontale” e relazionale, un lato che è sempre presente, ma che spesso tendiamo a trascurare perché ci concentriamo sul lato sanzionatorio e coercitivo.

Un pensiero comune, diffuso, popolare, secondo il quale le dure condizioni di vita in carcere sono inevitabili, anzi, giuste, poiché parte integrante della pena che deve colpire chi si è macchiato di un crimine. È una idea di riparazione come contrappasso: tu hai fatto soffrire e tu devi soffrire nello stesso modo, anzi, di più. Solo così la vittima può avere “soddisfazione” per il torto subito. Questo principio, che poco si differenzia da quello della “vendetta”, si accompagna a un altro mantra giudiziario: la certezza della pena. Tradotto: il reo deve pagare fino in fondo e soffrire sino all’ultimo giorno previsto dalla condanna. Niente sconti, niente opportunità alternative. La condanna: ecco tutto origina da essa, che è un giudizio!

Un principio, quello della punizione, che contrasta con l’insegnamento Cristiano. Non tendiamo di parlare di buonismo spicciolo, ma neanche vogliamo appoggiare la tesi del “buttare via le chiavi” perché non dovrebbe farlo lo Stato, in quanto entità che dovrebbe rispettare la propria Costituzione e tanto meno può e deve farlo la Chiesa.

Le istituzioni devono cambiare visione sui luoghi di reclusione, non sono e non possono essere ghetti dove le persone si lasciano oziare tutto il giorno perché così facendo si finisce col far credere al reo di essere la vittima del sistema penitenziario, lo Stato non può sostituirsi al carnefice “ tu – ladro, mafioso, omicida  – hai rotto il patto sociale e io – Stato – ti tratto come tu hai trattato” … in un Paese democratico non può esistere un atteggiamento direttamente proporzionale al male fatto.

Sappiamo bene che i buonisti di turno non saranno d’accordo perché per loro giustizia significa appunto punizione. Per noi giustizia vuol dire altro. Vuol dire far pagare attraverso quelle norme che sono state scritte per regolare l’esecuzione penale, anche se tali norme, per la loro immensa forbice discrezionale da parte dei Giudici, riescono a dire tutto e il contrario di tutto.  A ogni delinquente, è stato scritto, gli si deve innanzitutto assicurare un processo che garantisca ogni suo diritto, nel caso, oltre ogni ragionevole dubbio, la persona venga considerata colpevole e allora è sacrosanto che questo venga assicurato al carcere (ma bisognerebbe anche iniziare a cambiare mentalità e non vedere il carcere come unico luogo e metodo per far scontare una pena) e seguito in un percorso di risocializzazione che gli permetta di capire il male causato e fornirgli gli strumenti per farlo diventare un uomo diverso.

Buona meditazione!

 

Don Vito Scilabra

Carmelo Vetro 

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