La riforma del sistema penitenziaria deve contenere un’idea che metta al centro del detenuto la sua riabilitazione e non una vera e propria segregazione.
La tortura, mascherata con il nome di “perquisizione”, è oggi una delle più ignobili violenze che si possa perpetrare verso un uomo, così come di tortura fisica si può parlare nel violento pestaggio avvenuto poco più di un anno fa nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.
In questo ultimo caso, però, fatte salve le esitazioni e le minimizzazioni dei leader sempre dalla parte del manganello, la reazione della politica nelle sue più alte espressioni è stata all’altezza della situazione, non solo condannando senza appello l’accaduto, ma mostrando consapevolezza della necessità di cambiare la realtà carceraria affinché non possa ripetersi.
Si attribuisce al sovraffollamento la gravissima disfunzione del sistema penitenziario. Si tratta indubbiamente di un fattore che ingigantisce ed esaspera i problemi, rendendo da un lato difficilmente governabile la vita intramuraria, dall’altro favorendo contesti in cui la pena – in aperta violazione della Costituzione – diviene trattamento contrario al senso di umanità.
Ma se pensassimo di risolvere il problema, come da più parti si auspica, semplicemente costruendo nuovi penitenziari, ci ritroveremo a dovere pagare delle penali considerato che Il Consiglio d’Europa ha da tempo ammonito l’Italia: aumentare la capienza penitenziaria, significa soltanto favorire un maggior ricorso alla carcerazione.
Se alla pena detentiva si assegna il compito di punire con una privazione di libertà che offra anche opportunità – di cui il condannato deve mostrarsi all’altezza – di riabilitazione sociale, il carcere allora dovrebbe assomigliare il più possibile a un microcosmo sociale, a un villaggio chiuso in cui vive una comunità che lavora, studia, segue corsi professionalizzanti, si impegna in attività artistiche e sportive, rispetta regole di convivenza, riceve visite dall’esterno. Una realtà che non desocializza, ma che rieduca alla corretta socialità. Una realtà in cui al detenuto si offrono molte occasioni per prepararsi al rientro in società con la capacità di svolgere un lavoro e recuperando i propri rapporti affettivi che l’esperienza carceraria non avrà reciso. Ma anche una realtà in cui dal condannato si deve pretendere molto come l’0impegno nello studio e nel lavoro, osservanza delle regole, rispetto del personale di polizia, degli operatori e degli altri detenuti. Ove invece non si mostrasse meritevole di vivere correttamente neppure in questo microcosmo sociale, la pena recupererebbe la sua connotazione meramente punitiva.
Abbracciata questa ideologia della pena, l’edilizia penitenziaria non dovrebbe tanto essere incrementata, quanto essere profondamente ripensata in modo che i detenuti debbano responsabilmente gestire un proprio spazio abitativo e condividere ambienti comuni di lavoro, di studio, di impegno artistico e sportivo.
Sono cambiamenti che non si improvvisano e che, soprattutto, richiedono determinazione politica, disponibilità di risorse economiche e di tempo.
Occorre responsabilità del detenuto appunto, in pochi istituti penitenziari esiste la sorveglianza dinamica per dare corso a questa responsabilità (cioè: l’apertura delle celle per circa 12 ore al giorno) e queto non è che un modo per dare applicazione alla normativa vigente secondo cui le celle devono essere camere di pernottamento, ma non può risolversi nella mera ‘espulsione’ dei detenuti dalle celle: le ore fuori della camera dovrebbero essere impiegate in attività, svolte in strutture adeguate, per la preparazione del futuro sociale del condannato, che ne consentano una più significativa osservazione della personalità e del comportamento; non certo risolversi nell’apatico e insulso attardarsi in un corridoio ( la cosiddetta sezione) o in un cortile che assomiglia a un enorme pozzo.
Una privazione della libertà che prepari alla libertà presuppone certamente personale (polizia penitenziaria, funzionari, operatori psicopedagogici, volontari) di elevata professionalità, organizzazione funzionale allo scopo, strutture architettoniche adeguate, sinergie con gli enti locali; ma richiede, soprattutto, che nel sentire comune si affermi l’idea che tutto ciò farebbe bene alla sicurezza sociale e alla qualità della convivenza civile, drenando così l’acqua dal pantano della paura in cui affondano le idrovore del più rozzo populismo. Prima di ricostruire le carceri abbiamo bisogno di ricostruire la nostra fatiscente cultura della pena.
Buona meditazione!
Don Vito Scilabra
Carmelo Vetro