9/20 La vita in una gabbia

Una delle esperienze, che mi porto dietro, è il progetto con le scuole che si teneva all’interno del carcere di Padova.

Le scolaresche impegnate nel progetto erano delle superiori o studenti universitari; ragazzi che difficilmente si lasciano imbrogliare da una risposta superficiale; loro ascoltano, riflettono sulla storia raccontata e poi non risparmiano nessuna domanda, vogliono sapere, hanno il diritto di sapere, di capire dove, quando e perché un uomo decide di rompere il patto sociale e vivere fuori dalla legge.

Una delle domande frequenti dei ragazzi era: come passate le giornate? Com’è la vostra cella? Personalmente sentivo rimbombarmi nella testa una frase di S. Agostino: <<cos’è il tempo? Se nessuno me lo chiedo lo so, ma se provo a spiegarlo a chi me lo chiede non lo so più>>.

La vita detentiva è davvero difficile da spiegare, ogni cosa non ha nulla a che vedere con le cose reali di ogni giorno, devi avere un forte senso di adattamento e di pazienza.

Ancora oggi mi porto dietro delle cicatrici, ad esempio non sopporto il verbo aspettare. In carcere pure quando chiedi di andare a fare la doccia, pure quando la doccia è vuota devi aspettare; aspettare cosa? Non c’è una logica infatti, non ci sono risposte, il detenuto non merita nessuna gentilezza: devi aspettare.

Allora mi chiedo di quale RI-educazione si parla? Devi essere così forte e intelligente da capire da solo qual è la strada che ti porta a RI-consegnarti alla società civile come un uomo migliore, come uomo che ha capito cosa davvero conta nella vita e facendo tesoro dei propri errori, ma quando questo non accade? Quando ci si abbandona alla disperazione e alla rabbia? Lì il rischio è di trasformare irrimediabilmente il tuo essere, divenendo a poco a poco simile ad un animale o lasciandoti morire giorno dopo giorno.

Ho voluto pubblicare uno “scarabocchio” che vuole indicare la cella tipo di un nostro istituto penitenziario.

Vorrei rispondere a quei ragazzi che incontravo a Padova: “Ecco ragazzi questo è il luogo dove un detenuto viene rinchiuso per 20h al giorno in compagnia di un’altra persona (quando si è fortunati). Provate a immaginare, con il dramma del virus che oramai tutti conosciamo, come sia possibile mantenere, come prima cosa, la distanza di sicurezza tra un detenuto e un altro; come sia possibile assicurare una corretta igiene, se già nella normalità è drammatica”.

Nello spazio detentivo, la c.d. cella, si utilizza il locale bagno come luogo non solo dove espletare i propri bisogni fisiologici, ma anche dove cucinare, tenere le conserve, la frutta, la verdura, il pentolame, le scarpe; e se la cella ha ridottissimi spazi, il bagno è qualcosa di ridicolo e spesso senza alcuna finestra.

Si è costretti a stare in quelle condizioni anche con altri tre, quattro, cinque detenuti ed è lì che si impara a sopportare; è un luogo così pieno di tristezza e di privazione che ci si abitua a ogni genere di vita.

Allora immagino i tanti detenuti che vivono queste giornate senza potere telefonare ai familiari (notizia di oggi che il D.A.P per fortuna si sia attivato per mettere in comunicazione i familiari con i detenuti); immagino lo stato d’animo dentro le sezioni con le notizie che sentono alla TV e che inevitabilmente vengono ampliate, semmai ce ne fosse bisogno in verità, all’inverosimile.

Leggere poi, di alcuni giornalisti, che pensano che far tornare a casa i detenuti sia un peso per i familiari ha il sapore di un insulto e ritengo davvero ingiusto offendere sia le persone private della libertà, sia i familiari che tuttalpiù hanno la “colpa” di voler bene a un loro caro e allora schierarsi dalla parte dei “garantisti alle vongole” è necessario per non sminuire il lavoro quotidiano di tantissima gente volontaria, presenza di inestimabile valore  per far funzionare la macchina penitenziaria.

Penso ai detenuti e leggere dichiarazioni in cui si dice che la situazione sarebbe sotto controllo mi fa pensare: ma siamo sicuri che coloro che in questi giorni, in queste ore, stanno decidendo la sorte di detenuti, medici, infermieri e polizia penitenziaria sappiano cosa sia una cella e le sue dimensioni?

Perché di soluzioni non ce ne sono tante: o in tempi estremamente brevi si pensa ad una alternativa consentita dall’ordinamento oppure si fatica a capire quale sia la soluzione. Certo è che i nostri istituti di pena non hanno una capacità tale da ospitare, in cella singola, tutti i detenuti e se dovesse essere necessario il ricovero a massa dei detenuti, potremmo assistere al collasso totale del sistema sanitario.

E allora non ci resta che sperare nel Governo e nel D.A.P affinché adottino misure idonee per bloccare la prospettiva, purtroppo scontata continuando in questa maniera, che il virus si diffonda nelle carceri condannando (ancora una volta) detenuti, medici, infermieri e polizia penitenziaria a gravissime conseguenze per la salute propria e dei loro cari, l’Italia non deve permettere che ciò accada.

Don Vito Scilabra

Carmelo Vetro