ART. 1/22 Rieducare o punire?

Leggere, disegnare, scrivere, scolpire, fare teatro in carcere assume un valore speciale, ha il sapore della libertà perduta. Per questa ragione chi entra nelle prigioni del nostro Paese da “libero”, da volontario con in mano libri, pennelli, progetti artistici, culturali o ricreativi in testa compie un atto di puro impegno civile, di attenta e scrupolosa solidarietà.

 

dovrebbero essere molti più interventi capaci di sanare situazioni drammatiche di degrado e sovraffollamento dei nostri istituti di pena e proprio per questo ancora più essenziale e prezioso diventa l’impegno profuso dalle associazioni di volontariato carcerario e da altre realtà impegnate a mettere in atto il dettato costituzionale della “rieducazione” di chi ha commesso un reato.

In carcere occorrono piccoli gesti concreti che servono ad alleviare il disagio di una vita “ristretta”, non solo quindi progetti teatrali o letterari, ma anche e soprattutto serve acquisire conoscenze spendibili “fuori” una volta tornati alla vita reale, una volta “recuperati” alla società e alle sue regole.

Bisognerebbe ascoltare con più interesse le parole dei detenuti; sono espressioni di sentimenti e di emozioni di chi sta compiendo un viaggio difficile, di chi fa i conti ogni giorno con il proprio passato e tenta di immaginare un futuro. Ascoltare le “voci da dentro” diventa allora un esercizio per non dimenticare il significato, profondo e imprescindibile, dei diritti che vanno riconosciuti a ciascun essere umano.

Spesse volte assistiamo ad espressioni quale quelle che bisogna buttare le chiavi e far marcire tutti in carcere e in verità esistono reati così brutti che è difficile poter parlare di diritti da garantire, ma il “diritto” nella sua forma astratta conta sempre, innanzitutto, sulla collaborazione e cooperazione dei cittadini; quando non può farlo, e deve inasprire il suo aspetto coercitivo, vuol dire che c’è qualcosa che non va  in termini di giustizia  o in termini di mancata corrispondenza tra la regola e il  valore sociale.

Quel che è parso più evidente in questo periodo è che i cittadini, quando sono chiamati a rispettare le regole, sono sempre chiamati a fare (o non fare) qualcosa a qualcun altro. Ancora prima del rapporto con lo Stato, è importante quello che facciamo agli altri, ai nostri simili, a coloro con cui siamo in relazione. Il diritto in questo caso ha mostrato in maniera più evidente tale caratteristica “orizzontale” e relazionale, un lato che è sempre presente, ma che spesso tendiamo a trascurare perché ci concentriamo sul lato sanzionatorio e coercitivo.

Un pensiero comune, diffuso, popolare, secondo il quale le dure condizioni di vita in carcere sono inevitabili, anzi, giuste, poiché parte integrante della pena che deve colpire chi si è macchiato di un crimine. È una idea di riparazione come contrappasso: tu hai fatto soffrire e tu devi soffrire nello stesso modo, anzi, di più. Solo così la vittima può avere “soddisfazione” per il torto subito. Questo principio, che poco si differenzia da quello della “vendetta”, si accompagna a un altro mantra giudiziario: la certezza della pena. Tradotto: il reo deve pagare fino in fondo e soffrire sino all’ultimo giorno previsto dalla condanna. Niente sconti, niente opportunità alternative. La condanna: ecco tutto origina da essa, che è un giudizio!

Un principio, quello della punizione, che contrasta con l’insegnamento Cristiano. Non tendiamo di parlare di buonismo spicciolo, ma neanche vogliamo appoggiare la tesi del “buttare via le chiavi” perché non dovrebbe farlo lo Stato, in quanto entità che dovrebbe rispettare la propria Costituzione e tanto meno può e deve farlo la Chiesa.

Le istituzioni devono cambiare visione sui luoghi di reclusione, non sono e non possono essere ghetti dove le persone si lasciano oziare tutto il giorno perché così facendo si finisce col far credere al reo di essere la vittima del sistema penitenziario, lo Stato non può sostituirsi al carnefice “ tu – ladro, mafioso, omicida  – hai rotto il patto sociale e io – Stato – ti tratto come tu hai trattato” … in un Paese democratico non può esistere un atteggiamento direttamente proporzionale al male fatto.

Sappiamo bene che i buonisti di turno non saranno d’accordo perché per loro giustizia significa appunto punizione. Per noi giustizia vuol dire altro. Vuol dire far pagare attraverso quelle norme che sono state scritte per regolare l’esecuzione penale, anche se tali norme, per la loro immensa forbice discrezionale da parte dei Giudici, riescono a dire tutto e il contrario di tutto.  A ogni delinquente, è stato scritto, gli si deve innanzitutto assicurare un processo che garantisca ogni suo diritto, nel caso, oltre ogni ragionevole dubbio, la persona venga considerata colpevole e allora è sacrosanto che questo venga assicurato al carcere (ma bisognerebbe anche iniziare a cambiare mentalità e non vedere il carcere come unico luogo e metodo per far scontare una pena) e seguito in un percorso di risocializzazione che gli permetta di capire il male causato e fornirgli gli strumenti per farlo diventare un uomo diverso.

Buona meditazione!

 

Don Vito Scilabra

Carmelo Vetro 

11.2021 A proposito di… Diritti umani

L’importanza delle persone detenute, ai loro diritti e delle parole che intorno a quei diritti si pronunciano è il filo conduttore che lega quei luoghi di sofferenza con la Chiesa, con le istituzioni e con il mondo,cosiddetto, civile.

Perché non solo “le parole fanno le cose” come direbbe Foucault ma la loro
indeterminatezza può ledere diritti: la sottovalutazione delle parole usate
all’interno delle norme apre al rischio di debolezza dell’intero sistema normativo.
Espressioni quale «locale idoneo» dove una persona può essere trattenuta o
attenuazioni quale «ove possibile» nel riferirsi alla garanzia di condizioni
materiali di detenzione rispettose della dignità personale vorremmo
appartenessero al passato, ed invece sono drammaticamente attuali.

 

Il Garante Nazionale dei detenuti ci ricorda che il mondo dei luoghi di
privazione della libertà non è luogo “altro” ma ci appartiene; <<quei
muri e quei cancelli indicano soltanto una separazione temporale dovuta a
esigenze di tipo diverso, che possono aver determinato la restrizione della
libertà>>.

Il carcere appunto è un luogo di cui nessun cittadino dovrebbe sentirsi
lontano, la separazione sociale contribuisce a far formare quell’idea
collettiva molto diffusa che chi sbaglia debba essere rinchiuso e le chiavi
buttate via.

Dovremmo pensare all’assolutezza del diritto, alla dignità di cui ogni
persona, pure ristretta, è portatrice, nonché l’inviolabilità fisica e psichica
di ogni essere umano qualunque sia la sua colpa, la sua debolezza, il suo
doloroso bagaglio. Parlare oggi di inviolabilità dei corpi (e delle anime)
delle persone ristrette e dunque nelle mani dello Stato, dopo aver visto le
indecenti immagini dei pestaggi e delle torture ai danni dei detenuti nel
carcere di Santa Maria Capua a Vetere, appare incredibilmente necessario.

 

E se quei luoghi, quelle persone “ci appartengono” dobbiamo porci il
problema del dentro ma anche del domani e del fuori, perché quelle persone
prima o poi usciranno. E quasi mai però, viste le carenze sistemiche
evidenziate nella relazione, potranno uscirne migliorate.

E non tutti, peraltro, usciranno vivi. Nel 2020 sono stati 62 i suicidi.

 

Per la nostra APS (associazione promozione sociale) è solito accostare i
diritti dei detenuti ai diritti degli immigrati perché essendo un’associazione
con orientamento cattolico ci sta a cuore essere vicini a chi si trova ai
margini sociali.

Ci torna in mente la storia di Moussa Balde, un ragazzo sbarcato dalla Guinea
morto suicida a 23 anni.

<<Sono dovuto andare via dal mio paese dove la situazione era
diventata troppo difficile, vorrei restare in Italia, in questo paese ho avuto
un assaggio di come la vita può essere bella, voglio studiare per poter trovare
un buon lavoro>>
ecco come immaginava la sua vita in Italia. Moussa è
morto suicida perché depresso e relegato ai margini sociali per via di un
meccanismo, quello dell’accoglienza, che a volte, inceppandosi nelle maglie
burocratiche, non riesce a esprimere la sua vera funzione: accogliere per dare
speranza.

 

Buona meditazione!

 

Don Vito Scilabra

Carmelo Vetro 

10/2021 A proposito di…Riforma penitenziaria

La riforma del sistema penitenziaria deve contenere un’idea che metta al centro del detenuto la sua riabilitazione e non una vera e propria segregazione.

La tortura, mascherata con il nome di “perquisizione”, è oggi una delle più ignobili violenze che si possa perpetrare verso un uomo, così come di tortura fisica si può parlare nel violento pestaggio avvenuto poco più di un anno fa nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

In questo ultimo caso, però, fatte salve le esitazioni e le minimizzazioni dei leader sempre dalla parte del manganello, la reazione della politica nelle sue più alte espressioni è stata all’altezza della situazione, non solo condannando senza appello l’accaduto, ma mostrando consapevolezza della necessità di cambiare la realtà carceraria affinché non possa ripetersi.

Si attribuisce al sovraffollamento la gravissima disfunzione del sistema penitenziario. Si tratta indubbiamente di un fattore che ingigantisce ed esaspera i problemi, rendendo da un lato difficilmente governabile la vita intramuraria, dall’altro favorendo contesti in cui la pena – in aperta violazione della Costituzione – diviene trattamento contrario al senso di umanità.

Ma se pensassimo di risolvere il problema, come da più parti si auspica, semplicemente costruendo nuovi penitenziari, ci ritroveremo a dovere pagare delle penali considerato che Il Consiglio d’Europa ha da tempo ammonito l’Italia: aumentare la capienza penitenziaria, significa soltanto favorire un maggior ricorso alla carcerazione.

Se alla pena detentiva si assegna il compito di punire con una privazione di libertà che offra anche opportunità – di cui il condannato deve mostrarsi all’altezza – di riabilitazione sociale, il carcere allora dovrebbe assomigliare il più possibile a un microcosmo sociale, a un villaggio chiuso in cui vive una comunità che lavora, studia, segue corsi professionalizzanti, si impegna in attività artistiche e sportive, rispetta regole di convivenza, riceve visite dall’esterno. Una realtà che non desocializza, ma che rieduca alla corretta socialità. Una realtà in cui al detenuto si offrono molte occasioni per prepararsi al rientro in società con la capacità di svolgere un lavoro e recuperando i propri rapporti affettivi che l’esperienza carceraria non avrà reciso. Ma anche una realtà in cui dal condannato si deve pretendere molto come l’0impegno nello studio e nel lavoro, osservanza delle regole, rispetto del personale di polizia, degli operatori e degli altri detenuti. Ove invece non si mostrasse meritevole di vivere correttamente neppure in questo microcosmo sociale, la pena recupererebbe la sua connotazione meramente punitiva.

Abbracciata questa ideologia della pena, l’edilizia penitenziaria non dovrebbe tanto essere incrementata, quanto essere profondamente ripensata in modo che i detenuti debbano responsabilmente gestire un proprio spazio abitativo e condividere ambienti comuni di lavoro, di studio, di impegno artistico e sportivo.

Sono cambiamenti che non si improvvisano e che, soprattutto, richiedono determinazione politica, disponibilità di risorse economiche e di tempo.

Occorre responsabilità del detenuto appunto,  in pochi istituti penitenziari esiste la sorveglianza dinamica per dare corso a questa responsabilità (cioè: l’apertura delle celle per circa 12 ore al giorno)  e queto non è che un modo per dare applicazione alla normativa vigente secondo cui le celle devono essere camere di pernottamento, ma non può risolversi nella mera ‘espulsione’ dei detenuti dalle celle: le ore fuori della camera dovrebbero essere impiegate in attività, svolte in strutture adeguate, per la preparazione del futuro sociale del condannato, che ne consentano una più significativa osservazione della personalità e del comportamento; non certo risolversi nell’apatico e insulso attardarsi in un corridoio ( la cosiddetta sezione) o in un cortile che assomiglia a un enorme pozzo.

Una privazione della libertà che prepari alla libertà presuppone certamente personale (polizia penitenziaria, funzionari, operatori psicopedagogici, volontari) di elevata professionalità, organizzazione funzionale allo scopo, strutture architettoniche adeguate, sinergie con gli enti locali; ma richiede, soprattutto, che nel sentire comune si affermi l’idea che tutto ciò farebbe bene alla sicurezza sociale e alla qualità della convivenza civile, drenando così l’acqua dal pantano della paura in cui affondano le idrovore del più rozzo populismo. Prima di ricostruire le carceri abbiamo bisogno di ricostruire la nostra fatiscente cultura della pena.

Buona meditazione!

Don Vito Scilabra

 

Carmelo Vetro

9.21 I pestaggi di Santa Maria Capua Vetere

 

Non si placa l’eco di quanto successo al carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Secondo fonti certe, nei giorni dell’8 e 9 marzo dello scorso anno a seguito della dichiarazione dello stato di emergenza, per via della pandemia, in molte carceri italiane sono scoppiate delle rivolte da parte dei detenuti.

Premettiamo che noi dell’APS San Giuseppe Maria Tomasi (Associazione promozione sociale) siamo contro ogni forma di violenza e non giustifichiamo nessuno di chi la pratica, ma vorremmo riflettere sul perché in Italia possono accadere determinati fatti.

Intanto chi conosce un po’ il carcere sa benissimo che le notizie all’interno vengono veicolate col conta gocce, spesso sono distorte rispetto alla realtà e questo contribuisce al fatto che ogni detenuto, a secondo del proprio stato emotivo, elabori nella propria mente un’idea anche inverosimile di quanto accade fuori dalle mura, specie pensando ai propri familiari.

Il fattore scatenante che ha portato alla rivolta non lo conosciamo con esattezza, oggi si va alla ricerca del colpevole o semplicemente di “un colpevole” ma forse la verità è che l’abuso fatto da alcuni agenti non è legato in maniera isolata alle proteste nate per l’emergenza pandemica, probabilmente è il frutto di un sistema penitenziario che non funziona e che si tiene in piedi per via di tutte quelle regole non scritte che diventa l’unica forma di gestione da parte di direttori e agenti.

A questo punto ci chiediamo se sia possibile credere che all’interno delle carceri gli abusi fisici e verbali siano una prassi consolidata e che troppe poche volte vengono fuori. Il carcere essendo un sistema chiuso e non incline ad ospitare volontari esterni diventa un ghetto dove ogni cosa nasce e muore all’interno nella piena omertà di tutti quanti.

Qualcuno dice e dirà, leggendo anche il nostro articolo, che non bisogna generalizzare e che esistono agenti onesti; siamo d’accordo, ma gli agenti onesti si limitano a fare il proprio lavoro utilizzando tecniche di comportamento che non offendono, ne ledono la dignità di alcuno, ma allo stesso tempo questi stessi agenti non ci metteranno mai la faccia per denunciare loro colleghi che magari non hanno la stessa moralità, è la regola non scritta purtroppo, quindi onesti, ma complici.

I detenuti, dal canto loro, hanno certamente sbagliato a adottare forme di protesta violenta, incendiare i materassi è una forma di rappresaglia che non può essere giustificata perché il senso di questi gesti è creare scompiglio; un detenuto sa che l’amministrazione in questi casi si ritrova a fronteggiare un’emergenza e che spesso non è attrezzata innescando così il valzer dei trasferimenti o l’occupazione di celle di isolamento.

A noi sembra di assistere a due facce diverse e uguali, cambiano le etichette (buoni e cattivi) ma di fondo c’è l’uomo capace di ogni gesto violento.

Alcuni “esperti” di fenomenologia, indicano quelle rivolte come una strategia adottata dalla mafia per mercanteggiare la pax con le direzioni ottenendo trattamenti di favore! A noi persone umili, ma che abbiamo conoscenza del mondo carcerario, sembra una ricostruzione assai fantasiosa e far credere questo, al mondo che ci guarda, diamo l’idea di un paese privo di regole che di certo non ci fa guadagnare fiducia.

Per fortuna la cosa pubblica è oggi amministrata da una Ministra della Giustizia che non ha pensato di fare inutile propaganda, ma che si è recata personalmente a Santa Maria Capua Vetere per ristabilire, con la sua presenza, il vero senso della rieducazione che deve rispettare ciò che la Costituzione detta; ogni pena deve volgere alla rieducazione e mai alla soppressione della dignità di alcuno.

Sulla stessa scia ovviamente si trova il nostro presidente del consiglio che ripercorre la stessa tesi della Ministra: <<non può esserci giustizia dove c’è abuso, e non può esserci rieducazione dove c’è sopruso>> ha detto Draghi nel suo intervento.

Ma dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere fanno sentire la loro voce anche il coordinamento dei Magistrati di Sorveglianza invocando una riforma penitenziaria che faccia ricorso alle pene alternative in maniera riqualificante attraverso percorsi rieducativi, risocializzativi e riparativi.

Dal punto di vista cristiano invece, riteniamo che sia estremamente necessario riportare nei luoghi di detenzione una certa moralità rispettosa delle dignità. Lo stato non può adottare comportamenti lesivi alla dignità umana o addirittura non può diventare “carnefice” e il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è lo Stato! Riteniamo che in molte carceri italiani si dà valore alla persona attraverso un percorso di reinserimento nella vita sociale e con strumenti che possano far comprendere cosa significa convivere in una società civile, ma in alcuni luoghi, come Santa Maria Capua Vetere, di certo vengono usati metodi assai vergognosi ed è davvero raccapricciante assistere a questa sorta di punizione gratuita, qualcosa che dovrebbe fare indignare piuttosto che intentare inutili giustificazioni davanti a un’evidenza così grave, basti vedere l’intervista con la direttrice del carcere.

Dopo i fatti incresciosi, dunque, assistiamo all’interesse da parte della classe politica, di alcuna schiera di Magistrati e Avvocati che invocano riforme severe per ridare dignità all’esecuzione penale, ricorrendo magari alle pene alternative e addirittura all’indulto e all’amnistia.

A fronte di tante belle promesse non ci resta che rimanere in attesa che alle parole seguano i fatti.

 

Buona Mediazione!

Don Vito Scilabra

Carmelo Vetro

Art. 7/21 L’inaccettabile “errore”

 Art. 7/2021

L’inaccettabile “errore”

 

<<I dati drammatici per ingiusta detenzione riportati interamente dall’associazione errorigiudiziari.com. In prima posizione c’è il distretto di Napoli con 101 casi nel 2020. E lo stesso distretto è tra le prime tre posizioni da 9 anni consecutivi. E per 6 volte su 9 è stato al primo posto. In più, detiene il record di casi rag giunti in un anno: 211 nel 2013. Al secondo posto c’è il distretto di Reggio Calabria con 99 casi, terza Roma con 77 casi. Il record di spesa nel 2020 è detenuto dai distretti di Reggio Calabria e Catanzaro, con rispettivamente 7.907.008 euro e 4.584.529 euro. In terza posizione Palermo con 4.399.791 euro. Su base pluriennale Catanzaro è il primo distretto italiano per entità di indennizzi per ingiusta detenzione: soltanto negli ultimi 9 anni lo Stato ha versato quasi 51 milioni di euro. Dal 2012 a oggi, la Calabria ha assorbito più del 35% del totale degli indennizzi nazionali.>>

Vogliamo aprire la nostra riflessione odierna sui drammatici dati relativi all’ingiusta detenzione. Questi si commentano da soli e necessitano di un’attenta valutazione sia dagli organi istituzionali, sia dal “semplice” cittadino.

L’ingiusta detenzione è strettamente collegata alla drammaticità che vivono i familiari perché non dimentichiamo che la pena non la sconta solo chi si trova in carcere (molte volte poi assolto perché ritenuto innocente), ma viene subita ancora più ingiustamente dalle persone a lui vicine.

Con l’articolo di oggi abbiamo deciso di pubblicare stralci di lettere e pensieri di familiari che ogni giorno convivono con un familiare ristretto e stralci di storie di persone che sono state ingiustamente detenute…

<< chi vi scrive è una moglie e mamma di due gemellini. Sono sposata con G. e si trova in carcere dal 17/3/2004, da quel giorno inizia il mio calvario perché senza di lui mi sentivo persa, non c’era più un senso ma sentivo solo un grande vuoto.

Dopo un paio di mesi, con la sentenza di primo grado, gli viene dato l’ergastolo! Non credevo più a niente, mi sentivo mancare il respiro… Dare l’ergastolo è come farti smettere di vivere, di sognare perché quella sentenza viene data non solo a chi quella condanna la deve scontare, ma anche a chi ama davvero quella persona: l’ergastolo si sconta insieme.

In appello l’ergastolo, infatti, gli viene tolto per insufficienza di prove. E li, lacrime di gioia…ringraziavo Dio… in Cassazione viene accreditata la testimonianza di un pentito, basata sul “sentito dire” e a mio marito viene ridato l’ergastolo, il fine pena mai.

Dopo la Cassazione non abbiamo avuto la possibilità di difenderci, ma questo non ci ha impedito di realizzare alcuni dei nostri sogni: sposarci e avere dei figli. Due gemelli, un maschio e una femmina, nati con l’inseminazione artificiale dopo una lunghissima lotta contro la burocrazia e la filosofia che un condannato non ha più nemmeno il diritto a diventare padre… ogni volta che telefona gli chiedono “papà quando torni a casa”? e lui, con un nodo alla gola, risponde “quando il papà finirà di lavorare tornerà a casa e non vi lascerà mai più>>

E ancora la storia di una ragazza bulgara assolta dopo anni di detenzione…

<< Sono stata in carcere pur essendo innocente per quasi tre anni. Accusata di reati gravissimi, ma mai commessi. Alla fine, la mia colpevolezza non è stata riconosciuta.

Quando ero poco più che una ragazza, all’età di 23 anni, sono stata arrestata dai carabinieri insieme con altre quattro persone perché coinvolta in un’inchiesta giudiziaria i cui reati ipotizzati erano molto pesanti: associazione per delinquere, riduzione in schiavitù, sfruttamento della prostituzione e sequestro di persona. Era il 2013.

A tre anni dall’arresto, nel 2016, il processo davanti alla Corte di Assise si concluse con l’assoluzione. Durante il dibattimento si era potuto appurare che le accuse nei miei confronti erano state inventate da un’altra donna che si era voluta vendicare dopo un litigio.

La Corte d’Appello accolse la domanda di risarcimento per ingiusta detenzione disponendo una liquidazione economica…

Il Procuratore generale della Corte d’Appello, però, si era opposto al riconoscimento della parte economica.  Il PG lamentava il fatto che la Corte distrettuale mi avrebbe condannato perché, in sede di interrogatorio, mi sono “limitata” a protestarmi innocente spiegando che ero finita nell’indagine a causa di un’accusatrice la quale nutriva sentimenti di astio nei miei confronti per un pregresso litigio, senza però addurre elementi concreti a sostegno della tesi accusatoria».

Nel febbraio 2021 la Cassazione ha respinto il ricorso del Procuratore Generale, confermando la legittimità del risarcimento.

Secondo i giudici della Suprema Corte, infatti, «nel caso di specie non emergono – né il Procuratore generale ricorrente ne dà conto – profili di silenzio o di mendacio, o di reticenza da parte della giovane donna: non il silenzio, non essendosi la stessa avvalsa della facoltà di non rispondere; non il mendacio, non essendo state indicate circostanze fattuali incompatibili con le sue dichiarazioni; non la reticenza».

Non è un caso che anche Papa Francesco interviene sui molti casi di innocenti finiti in carcere costretti a rinunciare al bene più grande che è la libertà, agli affetti dei propri cari, alla carriera e vorremmo aggiungere: alla dignità calpestata. Gesù fu condannato a morte con una sentenza scritta a tavolino perché rappresentava una minaccia per il potere politico e religioso: “i dottori della legge si sono accaniti contro di lui: è stato giudicato sotto accanimento, con accanimento, essendo innocente“.

La storia di Andrea (nome di fantasia) racconta il dramma dell’essere figlio di un detenuto e rappresenta la storia di tanti altri figli di persone che convivono con questo marchio. Se vivi in contesti del sud per alcuni versi è “normale” avere il genitore o un parente in carcere; non ci si scandalizza più di tanto specie se siamo negli anni ’90 dove questa sorta di connivenza tra il bianco e il nero era accettata e ben plasmata all’interno del popolino.

Quando Andrea aveva nove anni, il padre, a causa di problemi con la giustizia si è dato latitante.

Non sapeva cosa significasse quel termine che mai aveva sentito nominare né in casa, né a scuola.

La madre di Andrea, una maestra di 37anni che si ritrova di colpo sbalzata in una realtà del tutto sconosciuta, cercava in tutti i modi di proteggere i tre figli piccoli dalle continue perquisizioni notturne da parte delle forze dell’ordine. Andrea osserva in silenzio e impaurito il trambusto che quella gente con i cappucci crea ogni notte nella casa che di norma è sempre ordinata e profumata, ma quei signori mettono tutto a soqquadro senza cura. Ha fissa l’immagine della madre, che apre la porta e seduta con i tre bimbi attorno a lei aspetta rassegnata nell’attesa che finiscano di cercare, di gridare, di chiedere, di minacciare << presto signora le toglieremo i figli se non ci dice dov’è suo marito>>.

Andrea è oramai adolescente quando il padre viene arrestato. Sono passati molti anni e ricorda l’immagine di suo padre sui giornali, su tutte le tv locali e nazionali. Clamore mediatico, persone che spettegolano, gente che addita <<quello è il figlio di tizio>>.

Ha 14 anni quando rivede suo padre in carcere. Sono emozioni indescrivibili. Andrea è un figlio attento, rispettoso e molto intelligente nell’essere capace a discernere le vicende giudiziarie del padre, ovviamente non condivise, dal rapporto personale con lui.

Va a trovare il genitore detenuto in una struttura del nord per un’ora al mese; non può toccarlo, non può abbracciarlo o lasciarsi andare a parole affettuose, può solo vederlo attraverso un freddo vetro che li separa; eppure, neanche quella tragicità di “viversi” scoraggia Andrea nel dimostrare il profondo amore per il padre. Gli scrive due volte a settimana, gli racconta della scuola, degli amici, dei suoi progetti di vita…

Andrea “conosce” così il padre. Attraverso le parole, le raccomandazioni e attraverso il suo sguardo scopre un uomo buono, affettuoso, capace di spiegare al figlio il male che alcune scelte di vita portano non solo a chi li fa, ma anche e soprattutto ai familiari vicini e a chi quel danno lo subisce. Fatica ad associare il padre ai racconti che di lui fanno i giornali.

Diciassettenne, inizia a volerci capire di più sulle vicende. Inizia a parlare con gli avvocati, a leggere accuse, difese e sentenze. Prende appunti, chiede spiegazioni al padre, martella di domande e di “perchè” gli avvocati.

Intanto non è più un ragazzino, finisce la scuola e inizia a costruire la sua carriera lavorativa. Fare il Geometra è per lui il mestiere più bello, condivide con il padre le esperienze lavorative che lo portano in giro per l’Italia. Un mese è formato di 720h e Andrea aspetta le 719 ore al mese che lo dividono dall’incontro con il padre raggiungendolo in qualsiasi parte d’Italia fosse detenuto.

Negli anni ha imparato i gusti del padre, i cibi a lui graditi, l’abbigliamento comodo lontano dalla giacca e cravatta che ricorda o rivede nelle foto di anni prima.

Andrea ha 22 anni quando presenta al padre, attraverso una foto, la ragazza di cui si era innamorato, è diventato il suo migliore amico. Il padre non gli ha mai fatto percepire la stanchezza o la tristezza, gli ha sempre riservato grandi sorrisi nonostante il luogo per nulla accogliente.

Come nella vita di ognuno esiste un momento dove ci si ferma a fare delle considerazioni sugli anni passati o sul senso della vita.

Lui ha capito che nonostante si sia totalmente assoggettato alla legge e al vivere da buon cittadino, in alcuni contesti se sei figlio di… ci rimarrai sempre. Andrea è stato un professionista apprezzato fuori dalla propria regione, ma additato nel suo paese… col tempo ha capito che la cultura purtroppo è il sale della vita e andrebbe diffusa senza “pietà” in tutti gli ambienti. Mai nessuno come Pirandello è riuscito nel descrivere “l’io” delle persone ne <<uno, nessuno e centomila>> dove la realtà perde la sua oggettività e si sgretola nell’infinito vortice del relativismo.

Siamo nel mese di luglio di un anno ormai lontano, Andrea percorre centinaia di Km per andare a trovare il padre. In Istituto gli dicono che è stato ricoverato. Si precipita in ospedale. Attende sei ore prima che gli venga accordato il permesso di vedere il padre per 10min. senza il vetro divisorio, ma con la presenza massiccia di agenti della penitenziaria. Accetta. Abbraccia il padre dopo oltre 12anni. Fino ad allora l’aveva solo visto attraverso un vetro divisorio. Padre e figlio che non si staccano da quell’abbraccio, emozioni, promesse, rassicurazioni e per la prima volta le scuse del padre per non esserci mai stato. Dieci minuti passarono e i due si lasciarono con la promessa di rivedersi presto. Erano inconsapevoli che quello fosse un addio. I medici informano Andrea del brutto male che oramai logorava il padre, non c’erano speranze alcune. Inizia un altro calvario fatto di attese, di burocrazia infinita, di tribunali che nominano medici per verificare lo stato di salute, di altri permessi perché medici di parte possano a sua volta verificare, attese di riscontri clinici, condizioni di salute da monitorate ogni ora, il direttore sanitario della struttura detentiva che chiede il ricovero urgente viste le condizioni… nella drammaticità durata un mese arriva agosto, altre 719 ore sono passate, Andrea con la madre e i fratelli possono correre dal loro caro trasferito nel frattempo in altra struttura detentiva e quando si presentano per il tanto agognato colloquio questi vengono condotti in obitorio. In un attimo tutto era finito. La burocrazia dei vari tribunali non aveva ancora fatto il suo corso per decidere cosa fare che già tutto era finito. Il padre di Andrea si era consegnato a miglior vita. La promessa di rivedersi presto era stata non mantenuta.

Questo racconta il dramma e la tristezza che alcune scelte di vita comportano e ciò che si è costretti a vivere, ma vuole anche invitare ad una riflessione profonda perché di casi come il padre di Andrea, nelle carceri italiane, ne esistono e centinaia e lo Stato dovrebbe sempre garantire ai suoi “ospiti” ogni tipo di assistenza e snellire, quando si tratta di vivere o morire, la burocrazia. Vuole fungere da prevenzione per i giovani che si lasciano affascinare da uno stile di vita al di sopra delle righe senza sapere che tale illusione porta solo alla distruzione; vuole inoltre essere spunto di riflessione per chi è comunque impegnato nell’importante compito di amministrare la giustizia.

Buona Meditazione!

Sac Antonino Scilabra

Carmelo Vetro  

 

 

ART. 6/21 Marginalità sociale

Il concetto di marginalità sociale comprende singole persone e gruppi che non possono o non vogliono rispettare le norme e le usanze della società in cui vivono. La loro emarginazione sociale, tuttavia, non deriva solo dal loro essere diversi, ma si spiega soprattutto con la reazione della maggioranza che, sulla base dei criteri più diversi, prende le distanze da tali individui spingendoli appunto ai margini della società. La condizione di marginalità può essere accompagnata da un danno economico, dalla discriminazione sociale, della perdita della capacità giuridica e dalla limitazione dei diritti politici. La marginalità sociale comprende fenomeni molto eterogenei ed è soggetta a continui cambiamenti.

 

Erano considerati emarginati tanto i disabili e i malati quanto persone che esercitavano mestieri indispensabili per la società, ma gravati dal marchio del disonore. A quest’ultima categoria appartenevano, fra l’altro, prostitute scorticatori di animali, becchini e vuotatori di latrine. Anche differenze etniche o religiose potevano determinare l’esclusione di una minoranza, come avvenne per gli Zingari, gli ebrei e gli omosessuali; quest’ultimi addirittura furono perseguitati e condannati alla pena capitale. Le autorità laiche ed ecclesiastiche talvolta emanavano prescrizioni per il vestiario, per stigmatizzare gli appartenenti a determinati gruppi marginali, oppure costringevano questi ultimi a contrassegnare i propri abiti con colori o segni infamanti.

Durante il Medio Evo, l’atteggiamento nei confronti dei lebbrosi oscillava fra la marginalizzazione e la demonizzazione e vennero confinati al di fuori dei centri abitati. Nel 1321 la presunta congiura dei lebbrosi, accusati di essere avvelenatori di pozzi e nemici della cristianità, scatenò un vasto movimento di persecuzione che fece vittime in tutto il territorio dell’Europa centrale.

Quando gli zingari fecero la loro comparsa nell’Europa occidentale e centrale, all’inizio del XV sec., furono accolti benevolmente e ospitati dai governi cittadini, per esempio da quello di Basilea. Già verso la fine dello stesso secolo vennero però associati a furti, divinazioni e altri delitti e addirittura accusati di essere spie dei Turchi. Nel 1498 la Dieta imperiale di Friburgo in Brisgovia decise di bandirli per sempre dall’Impero.

L’assunzione da parte delle municipalità dell’assistenza ai poveri e ai mendicanti fece scaturire una nuova ondata di emarginazione. Le autorità civili iniziarono a stabilire i criteri che davano diritto a ricevere elemosine e a mendicare. Essere “nullafacente” o “vagabondo” corrispondeva per contro a un comportamento che nei secoli successivi venne sempre più criminalizzato. Gli uomini, le donne e i bambini sani e in grado di lavorare che vivevano di elemosine e non avevano fissa dimora sottostavano, come gli stranieri, al divieto di accattonaggio. In questa categoria rientravano i mendicanti forestieri, ma anche gli uomini e le donne privi del diritto di cittadinanza nel luogo in cui abitavano. Chi mendicava illegalmente veniva espulso e i contravventori recidivi erano passibili di pene corporali. Per motivi economici e disciplinari le autorità organizzavano appositi trasporti per espellere i forestieri mendicanti. La non sedentarietà, che interessava anche i Girovaghi, costituì quindi un importante criterio di emarginazione. Dal XVI sec. in poi gli stranieri poveri furono sottoposti a una crescente repressione da parte delle autorità. Misure di polizia quali retate e bandi, come pure lo scambio di schede segnaletiche e di avvertimenti fra autorità di città amiche, contribuirono alla loro criminalizzazione.

Talvolta erano considerati emarginati anche gli artigiani ambulanti, i cosiddetti guastamestieri, i Mercenari senza occupazione con le loro accompagnatrici e i Menestrelli. Gli storici non sono concordi nel considerare i criminali quali emarginati. Di certo non lo erano uomini e donne che, banditi per un certo periodo, dopo aver scontato la pena riprendevano la loro vita sociale e lavorativa e nemmeno i Briganti. Le bande che assalivano i viaggiatori, attive soprattutto nelle regioni boscose o di campagna, rappresentano gruppi di struttura eterogenea che formavano una sorta di società alternativa.

Ci fa riflettere, paradossalmente, che durante il Medioevo, ritroviamo una forma di “giustizia” che permettesse a chi era stato bandito dal proprio paese, perciò escluso, di riacquistare la sua vita sociale una volta scontata la pena.

Nel 2021, il mondo ha subito una forma di modernizzazione impensabile iniziata con la fine della Seconda guerra mondiale. La tecnologia esistente ha raggiunto è stata capace di raggiungere ogni obiettivo prefissosi dall’uomo. Nonostante l’evoluzione a livello globale, assistiamo a un giustizialismo fuori da ogni logica e a una giustizia “vecchia”, una forma di reinserimento sociale quasi inesistente. Infatti, se nel medioevo alle persone che subivano il bando pubblico gli veniva permesso il loro reinserimento finita di scontare la pena, oggi chi subisce una interdizione, una misura di prevenzione o una pena detentiva viene letteralmente escluso dalla società civile e difficilmente riacquisterà i diritti riconosciuti a ogni individuo.

Buona Meditazione!

Sac. Antonino Scilabra

Carmelo Vetro

 

5.21 Bambini dietro le sbarre

Spesso, con i nostri articoli ci concentriamo su diversi temi sociali e quando parliamo di carcere lo facciamo parlando dei detenuti, quasi mai però parliamo delle detenute, ecco perché oggi dedichiamo il nostro tempo a loro.

La legge italiana prevede che una donna che debba scontare una pena detentiva, se madre, questa possa farlo assieme al proprio figlio/a costringendolo di fatto a scontare la pena assieme al genitore. Un’atrocità secondo il nostro punto di vista.

Una legge in Italia permette di spostare la detenuta dal carcere, al carcere – nido che altro non è che una vera e propria detenzione, ci sono le sbarre e i cancelli esattamente come nella detenzione “normale” solo che a dare un minimo di colore a un posto così triste sono i sorrisi dei bambini inconsapevoli del mondo in cui vivono e del trauma che probabilmente si porteranno a vita.

Diversa è la realtà degli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam), purtroppo pochissimi in Italia, solo cinque (Milano San Vittore, Venezia Giudecca, Cagliari, Lauro e Torino). Si tratta di appartamenti che ospitano mamme con bambini fino a sei anni, nati in seguito alla riforma della legge 62 del 2011.

A differenza del carcere, qui i piccoli vengono presi da volontari alla mattina e portati a scuola. Non ci sono sbarre né divise, ma orari e ritmi rigidi da rispettare.

I piccoli rientrano nel pomeriggio. Si tratta pur sempre di una convivenza forzata tra donne e bambini, sicuramente molto più umana rispetto a quella delle carceri-nido.

Colpevoli di nulla quindi, questi bambini trascorrono i primi anni della loro vita tra le mura di un penitenziario dove il passaggio tra il giorno e la notte è scandito dal fragore delle chiavi di ferro che aprono e chiudono le celle. Dove ci sono solo donne e i maschi sono agenti in divisa che ogni tanto si vedono da lontano. Dove tante volte le stesse mamme soffrono di gravi disturbi o arrivano da situazioni di disagio e disperazione estreme.

Ovviamente le sentenze vanno rispettate, questo dato è incontrastabile, ma bisognerebbe trovare una soluzione perché se da un lato vanno rispettate le sentenze, dall’altro non si può far vivere a piccoli innocenti la dura esperienza del carcere.

Secondo uno studio europeo, la preoccupazione per i figli viene menzionata dalle donne in carcere come una delle cause principali di depressione e ansia, che conduce all’autolesionismo. Lo studio condotto per conto della Commissione europea appunto, conferma che “le perdite e le rotture dovute alla separazione dai […] figli emergono specificamente da tutte le relazioni dei paesi quale fonte primaria di sofferenza in prigione per le detenute“.

Occorre una riflessione molto profonda perché bisogna garantire un’esecuzione penale che rispecchi quanto più possibile la vita esterna scandita dagli stessi ritmi, cosa quasi impossibile, ma la soluzione non può certo essere far vivere ai bimbi la carcerazione.

Ci rendiamo conto che le Istituzioni si ritrovano davanti al grande enigma tra l’incontrastabile dato che è quello di dare corso alle sentenze e dall’altro cercare un modo per coniugare l’esecuzione della pena con i rapporti familiari.

Il Consiglio d’Europa, in una relazione pubblicata già nel 2000, raccomanda lo sviluppo di unità di piccole dimensioni chiuse o semi chiuse con il sostegno dei servizi sociali, in cui i bambini possano essere accuditi in un ambiente a misura di bambino e dove l’interesse del minore sia preminente, pur non trascurando la necessaria sicurezza pubblica.

Ultimo aspetto, ma di certo non meno importante, è come questi bambini vengano educati alla religione; sappiamo che si cerca di dare un insegnamento scolastico più o meno adeguato, ma non esiste, a quanto pare, una vera e propria norma che prevede cosa si faccia per dare loro un insegnamento religioso, forse perché si pensa ci sia tempo giacché i bambini stanno in carcere “solo” fino a 6 anni?

In definitiva, considerando l’universo detentivo maschile o femminile che sia, bisogna dire che i detenuti che hanno fallito come cittadini possono riuscire come genitori e il successo come genitori li può aiutare a diventare cittadini migliori. Buoni legami familiari sono importanti all’epoca del rilascio, in particolare perché un ambiente familiare stabile dove fare ritorno, quindi la preservazione dei vincoli familiari svolge un ruolo importante nella prevenzione della recidiva e nella reintegrazione sociale dei detenuti. Tuttavia, un certo numero di fattori, come condizioni di visita non flessibili e ambienti di visita poco accoglienti, possono perturbare i rapporti familiari e il contatto con i figli. Occorre creare un ambiente che trovi il giusto equilibrio tra le esigenze di sicurezza e i buoni contatti con i familiari a partire dalla sala colloqui, che sia una sala che consenta una certa libertà di movimento e privacy alla famiglia, ambiente accogliente per i bambini… tutto ciò costituisce un importante disincentivo alla recidiva.

Buona Meditazione!

Sac. Antonino Scilabra

Carmelo Vetro

4.21 A proposito di…

Nel nostro precedente articolo abbiamo affrontato la tragicità delle misure di prevenzione personali applicate a chi ha subito una condanna e dopo un periodo più o meno lungo di carcerazione.

In questo senso, per quanto possiamo essere critici per le argomentazioni già trattate, diciamo che riusciamo a trovare un filo di comprensione, ma quando queste misure vengono applicate a persone che magari sono solo “sospettate” di avere commistioni con un mondo che non rispecchia la legalità e quando a queste misure seguono il sequestro dei beni, ecco che tutto ciò sa davvero di tragico e sembra appartenere in un paese confuso, pasticcione per usare un termine assai elementare.

 Ovviamente verrebbe da dire che se “esiste il sospetto” sia giusto prevenire! Noi diciamo no, in Italia esiste la presunzione di innocenza, qualcosa di meraviglioso da applicare accanto al nome di democrazia e giustizia e perciò non si dovrebbe stravolgere la vita personale e professione di un uomo se non si è certi che quella persona vada messa nelle condizioni di non commettere reati.

Dalle inchieste giudiziarie sappiamo che molte si risolvono in un nulla di fatto per intervenuta assoluzione o perché prosciolti (cioè non rinviati a giudizio), ma nel frattempo la persona si è vista spogliata di ogni suo bene, della propria dignità e costretta ad attendere, senza altra possibilità, la fine delle inchieste o la fine di un processo. Legate a stretto giro con tali misure sono i sequestri dei beni patrimoniali, molte aziende virtuose, in nome del “sospetto”, passano dalla gestione privata, alla gestione Giudiziaria. Paradossalmente tale gestione è quasi sempre fallimentare e ciò che ne consegue è la perdita di posti di lavoro e le aziende stesse poste in fallimento.

Non tutti sanno che, se si viene arrestati ingiustamente o indagati, venendo poi assolti o non rinviati a giudizio, il risarcimento non è automatico. Deve essere promosso dalla stessa persona che ha subito l’onda giudiziaria e viene concesso nel caso in cui venga accertato, in questo caso con una attentissima valutazione da parte del Giudice, che la persona ingiustamente arrestata o posta sotto inchiesta Giudiziaria, non abbia indotto in errore, con un comportamento doloso o colposo, il giudice che lo ha arrestato o indagato. Ma come può una persona, risultata innocente, essere causa del suo arresto? È qualcosa di assurdo che supera qualsiasi logicità e comprensione.

Quindi la colpa non è del giudice, è tua perché con il tuo comportamento (ti ricordo che sei innocente) hai fatto sbagliare il giudice.

Purtroppo, il nostro ordinamento è in più parti formato dalla cultura del sospetto, dalla presunzione di persistente colpevolezza che si distingue per i suoi tratti autoritari.

 

Ci chiediamo quindi: quando un privato viene espropriato del frutto del suo lavoro e la sua intera famiglia gettata per strada, senza contare la gogna mediatica, come si può parlare di “giustizia sociale”? Togliere il patrimonio a un innocente è efficienza o ingiustizia?

 

Come Chiesa abbiamo il compito di vegliare e consigliare i comportamenti privati di ogni cristiano nella sfera dell’intimità, ma abbiamo anche l’obbligo morale di mettere in evidenza tutte le discrepanze che un ordinamento giuridico può causare ad ogni singolo cittadino.

Ci fermiamo a riflettere sull’aspetto morale e sessuale, ma siamo molto latitanti sull’aspetto giuridico che coinvolge molte più persone nella nostra società.

Buona meditazione!

Sac. Antonino Scilabra

 

Carmelo vetro

3/21 La libertà…assai vigilata…

Oggi vorremmo affrontare un argomento molto delicato e cercheremo la formula più adatta per far comprendere che solo ed esclusivamente in Italia esistono le cosiddette pene accessorie quali: la Sorveglianza speciale e la libertà vigilata, solitamente applicate a seguito di condanna e dopo un periodo di detenzione più o meno lungo.

Diamo un breve cenno su cosa prevedono questi due istituti per far comprendere perché parliamo di stravolgimento totale della vita: la sorveglianza speciale prevede che una persona stabilisca la propria residenza in un comune entro la quale muoversi. Non potrà uscire di casa entro un dato orario mattutino e dovrà rincasare in molti casi anche alle 18. Inoltre, gli sarà sospesa la patente di guida, gli sarà fatto divieto di frequentare luoghi affollati, dovrà essere reperibile in qualsiasi momento della giornata per le forze dell’ordine e sarà soggetto a controlli notturni mirati ad assicurarsi che non esca dalla propria abitazione in orari non consentiti.

Stesse regole valgono per la libertà Vigilata, ma in più i soggetti sottoposti a tale misura di prevenzione, hanno l’obbligo di presentarsi in caserma anche più volte al giorno per apporre la propria firma su un registro di controllo.

Dunque, è possibile immaginarsi come di colpo la propria vita possa essere “sospesa” e ritrovarsi a vivere un calvario, limitato della propria libertà e la serenità di un’intera famiglia compromessa, specie nelle ore notturne.

Il ragionamento a cui ci ancoriamo è quello di volere capire perché, se esistono all’interno del nostro ordinamento simili pene accessorie, non si predisponga un sistema per cui l’accertamento “dell’attualità della pericolosità sociale” sia fatta in maniera capillare e soprattutto attuale. Diciamo questo perché molto, molto spesso i vari Tribunali nell’accertare l’attualità della pericolosità sociale si rifanno a relazioni storiche e stereotipate della Questura, Tenenza dei carabinieri, Dia, Dda…che molto spesso non possono essere considerate utili ai fini dell’accertamento della pericolosità perché si limitano a narrare la storia processuale del soggetto senza tenere conto del lasso di tempo che ha trascorso in carcere o della positiva  evoluzione intra ed extra muraria, infatti, non si valutano elementi che comunque sono indicatori significativi per capire la tipologia di vita che quel determinato soggetto conduce dal momento in cui viene scarcerato.

In Italia si tende a utilizzare il ricatto della collaborazione con la Giustizia o della dissociazione come unico metodo per potere considerare “cambiata” la persona. Ma più volte la Suprema Corte si è espressa chiarendo che la collaborazione non è il solo ed esclusivo indice da valutare, molte volte infatti la persona decide di non collaborare per paura di ritorsioni nei confronti dei propri familiari, perciò si accetta di soccombere al giudizio negativo da parte dei vari Tribunali giudicanti, senza la possibilità di dimostrare che l’allontanamento da qualsiasi logica delinquenziale può avvenire in altre mille forme.

Riportiamo un breve stralcio dell’ennesima ordinanza di rigetto da parte di un Tribunale siciliano: <<Non ha manifestato successivamente alla sua scarcerazione alcun comportamento, né ha reso alcuna dichiarazione, dai quali desumere la dissociazione del medesimo dal vincolo che lo ha per gran parte della sua vita legato a tale sodalizio criminoso>> ed ancora << durante il lasso di tempo trascorso dall’applicazione della misura (un anno e sei mesi a fronte dei tre anni previsti) sebbene il prevenuto si sia prodigato per la ricerca di un’attività lavorativa stabile per ricostruire una vita all’insegna della legalità e, pur se rispettoso dei limiti della sua libertà personale posti dalla misura della sorveglianza speciale, non ha posto in essere alcuna condotta indicativa di un reale cambiamento assistenziale da leggersi quale autentica rescissione del legame con la famiglia mafiosa alla quale è stato accertato appartenere>>

<< …ai fini della revoca della misura in atto il prevenuto avrebbe dovuto, nelle forme a lui più congeniali, manifestare la sua assoluta distanza dell’associazione mafiosa>>

Dagli stralci sopra riportati appare del tutto evidente come il Giudice abbia formato il proprio convincimento solo ed esclusivamente mediante l’applicazione di regole presuntive nate dal principio del “semel mafioso semper mafioso” che tradotto in siciliano significa <<cu nasci mafiusu mori mafiusu>> metodo di accertamento ormai rifiutato dalla giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite, ma rifiutata anche dai siciliani in generale.

Sappiamo che leggere un articolo del genere è pesante perché richiede impegno, sensibilità e immedesimazione, ma è utile ai fini della comprensione di ciò che parliamo; l’ordinanza riportata è recentissima, narra fatti risalenti a oltre un decennio fa quando la persona in questione aveva 26 anni, ha trascorso 7 anni e due mesi in stato di detenzione, ha subito il 41 bis, revocato poi per l’illegittimità ex tanc del provvedimento, ha intrapreso un percorso risocializzante di rilievo come dimostrato dalle numerose relazioni dell’equipe trattamentali dei vari istituti in cui è stato detenuto (vari istituti del nord Italia) e un percorso universitario notevole. Ad oggi lavora e si dedica al volontariato. Ma nonostante tutto, per i Giudici non è mai abbastanza.

 

Buona meditazione!

Sac. Antonino Scilabra 

2/21 A Proposito di…

A proposito di

In un nostro articolo parlavamo dell’indifferenza e di quanto male faccia a un essere umano dimostrargli quanto sia invisibile agli occhi del mondo.

Spesso parliamo dell’esperienza che maturiamo giorno dopo giorno stando a contatto con gli emarginati di ogni specie, dai detenuti agli ex detenuti, agli immigrati, ai senza tetto, alle donne che hanno subito violenza.

Molte volte ci accorgiamo che chi ha vissuto in carcere anche “solo” per pochi anni, non appena viene a contatto con il mondo esterno e quindi con la luce, i colori, i profumi, i rumori, lo spazio aperto viene colpito da una specie di attacco di panico, l’incapacità di muoversi abilmente in uno spazio aperto e addirittura a deambulare in maniera corretta.

Inoltre, notiamo che la persona che ha subito il carcere non è cosciente di quello che è diventato, non ha contezza del fatto che sembra un alieno in terra.

Osservando questi comportamenti ci siamo chiesti perché Le Istituzioni permettano che il carcere, che dovrebbe essere un luogo che priva della libertà e che dia, allo stesso tempo, cura alla persona dal punto di vista affettivo, psicologico; un luogo che attraverso una importante opera di risocializzazione sia in grado di riconsegnare il reo alla società civile come un nuovo uomo, possano permettere che uomini e donne ristretti nei nostri istituti di pena, si autodistruggono, la loro personalità persa e la dignità calpestata? Non si comprende che così facendo non si porterà la persona a comprendere il proprio sbaglio, anzi, questo si sentirà vittima di un sistema sbagliato.

Avendo conoscenza del carcere abbiamo cercato quindi di interpretare i modi di fare di questi uomini, apparentemente strampalati e fuori dalla consuetudine nei modi di fare.

Il carcere, infatti, è organizzato in modo tale da trasformare uomini pensanti in perfetti robot; è dato scientifico che un uomo costretto a eseguire ogni giorno gli stessi movimenti viene poi condizionato con il mondo esterno, è il caso degli impiegati delle fabbriche costretti a estenuanti ore di lavoro ripetendo gli stessi movimenti ed è il caso dei detenuti costretti a oziare giorno dopo giorno in celle così piccole che è traumatico pensare di organizzare la propria vita in simili condizioni.

Abbiamo parlato con chi il carcere l’ha subito da detenuto o con chi lo vive come volontario prendendosi cura di persone che vivono le condizioni più disparate e quello che viene fuori è uno spaccato di realtà difficile anche solo a immaginarlo.

La difficoltà ad esempio trovata nella deambulazione è dovuta agli spazi assai limitati, immaginiamo di chiudere un animale in gabbia liberandolo dopo anni, non potrebbe mai essere per come vi è entrato, viene nociuta la capacità di comprendere lo spazio e il tempo.

Un’altra cosa che non ha attinenza con nessun senso logico è la mancanza di colori in carcere; si guarda solo il grigio dei muri di cinta, il nero dei blindati, l’azzurro forte delle celle.

È capitato una volta di ospitare, presso il nostro centro, un detenuto in permesso premio e questo si è immerso nella vasca da bagno per ore per potere assaporare quel senso di benessere che può dare  l’acqua calda; una delle tante illogicità del carcere è infatti la mancanza di acqua calda, qualsiasi sia la stagione sono costretti a lavarsi con l’acqua fredda prefigurandosi una vera e propria tortura psicologica.

Abbiamo visto persone fermarsi davanti l’ingresso di una stanza perché anche la loro percezione è compromessa; proviamo a spiegarci meglio…in carcere, all’ingresso di ogni cella, corridoio, doccia, palestra, addirittura in chiesa vi sono dei cancelli in cui ci si deve fermare obbligatoriamente e questo “muro” rimane così impresso nella mente dell’uomo che non si riesce più a vedere la realtà e la realtà è che una volta fuori dal carcere quei cancelli non ci sono fisicamente eppure, psicologicamente, rimangono impressi nella loro testa.

Spiegare quindi cosa accade nella testa di un uomo è cosa assai complicata, facciamo nostre le parole trovate in un libro che provando a descrivere il carcere lo ha fatto così: …Quello che è certo è che: “Il carcere è un momento di vertigine. Tutto si proietta lontano: le persone, i volti, le aspirazioni, i sentimenti, le abitudini, che prima rappresentavano la vita, schizzano all’improvviso da un passato che appare subito remoto, lontanissimo, quasi estraneo”

Buona meditazione!

Sac. Antonino Scilabra

 

Carmelo Vetro