1.21 La cultura dell’indifferenza

Ragionando attorno al
bellissimo messaggio di Papa Francesco abbiamo pensato come la cultura
dell’indifferenza colpisca il cristiano.

Tra gli studenti
americani è spesso consuetudine scrivere sulle pareti delle loro scuole “I care
“. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi
sta a cuore”, il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”».

Si tratta di
un’attitudine egoistica (ci dimentichiamo degli altri, non ci interessano i
loro problemi, le loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono) che ha preso
oggi una dimensione mondiale al punto da potere parlare di una globalizzazione
dell’indifferenza.

Tutti noi Cristiani e no,
dovremmo fare ogni giorno la nostra parte per uscire fuori da questo
atteggiamento di indifferenza verso l’emarginato o verso chi vive condizioni di
povertà.

È pur vero che mettere su
carta ciò che sarebbe giusto è cosa semplice, ma ciò che conta è cosa riusciamo
a fare nel concreto.

La nostra organizzazione
di volontariato si occupa, tra le altre cose, di dare assistenza ai detenuti ed
è su questa tragedia umana che vogliamo soffermarci.

Ci capita molto spesso di
vedere persone entusiaste quando raccontiamo quello che facciamo in carcere e
altrettante volte ci chiedono come fare per potere prestare un attimo del loro
tempo al volontariato.

Ma ci si dovrebbe prima
chiedere, perché? Cosa posso dare a queste persone private della loro libertà e,
molto spesso, della loro dignità?

Entrare in contatto con
un detenuto è argomento assolutamente delicato, non si deve entrare in carcere
come se si andasse al “circo” a soddisfare una propria curiosità!

Bisogna intanto pensare
che è un luogo di sofferenza e bisogna dotarsi di un’infinita sensibilità per
potere raccogliere anche solo uno sguardo di un detenuto. L’atrocità del
carcere non termina nell’attimo in cui si riacquista la libertà, ci capita
infatti molto spesso di ospitare persone in Misure alternative alla detenzione,
magari dopo lunghissimi anni di detenzione, e vedere sul loro volto la
stanchezza, la sofferenza e la paura, lo squilibrio che un luogo così duro
lascia indelebile sulla persona.

La vita è piena di momenti e situazioni in cui
optare per essere indifferenti. Possiamo essere più o meno 
interessati, ma non possiamo smettere di sentire. Si tratta di una risorsa che ci fa scegliere se
percepire gli stimoli oppure se allontanarli da noi; pertanto, l’indifferenza
assoluta è impossibile.

Si dice saggiamente che
“l’indifferenza è la risposta più dura, anche quando non ci si aspetta
molto”. È dimostrato
che, quando ostentiamo la nostra indifferenza verso un’altra persona, questo
atteggiamento è uno dei più aggressivi e dolorosi che si
possano assumere. Mostrare indifferenza verso qualcuno implica che stiamo
ritirando tutti i nostri 
sentimenti e che
l’altro, per noi, non esiste nemmeno.

Ma non sempre
l’indifferenza è negativa, è anche un meccanismo di difesa al quale ci afferriamo per
non soffrire costanti delusioni di fronte alle vicissitudini della vita.
Mantenerci in disparte e non aspettarsi nulla da niente e nessuno sono dei
tentativi di auto-proteggerci
.
 Se
non fossimo capaci di diventare neutrali e dovessimo dare una risposta negativa o
affermativa ogni volta che riceviamo uno stimolo, finiremmo esausti.

Vogliamo non
dilungarci ricordando l
’episodio evangelico del cieco di Gerico che
mendicando lungo la strada vide la folla che aspettava Gesù e riconobbe in lui
«il Messia annunciato da Davide»

L’indifferenza e l’ostilità quindi provata  per i bisognosi, malati, profughi, rifugiati e
carcerati rendono ciechi e sordi,
impediscono di vedere i fratelli e le sorelle e non permettono di riconoscere
in essi il Signore e quando questa indifferenza e ostilità diventa aggressione,
e anche insulto
“ma cacciateli via tutti, metteteli in
un’altra parte o ancora, metteteli in carcere e buttate le chiavi”
questa
aggressione è quello che faceva la gente quando il cieco gridava <> ma  Gesù non fu indifferente al grido d’aiuto
de cieco, ma si fermò e fece il miracolo di fargli riacquistare la vista…

Buona Meditazione!

 

Sac. Antonino Scilabra

Carmelo Vetro

15.20 “Il divorzio” dall’amore

Uno dei temi che ci sta a cuore è quello dell’affettività in carcere.

Un tema così delicato è esaltato dal fatto che i detenuti, essendo privi di libertà, non hanno la possibilità di esprimere i loro sentimenti in maniera naturale, ma devono subire una vera e propria privazione dell’istinto naturale all’amore appartenente ad ogni essere vivente.

  Quando si parla di affettività, intendiamo ogni gesto ad essa collegata e quindi una carezza, uno sguardo, un bacio rivolto al proprio figlio, ai genitori, alla propria compagna e non vorremmo creare nessuno scandalo se riteniamo assolutamente legittimo che un detenuto possa avere rapporti intimi con la propria moglie o compagna e per fortuna questa prospettiva è oggigiorno accolta con una maggiore sensibilità dalla Chiesa, dal mondo politico, dalla gente comune.

Questa forma di privazione ha un impatto negativo sul detenuto da diversi punti di vista perchè soffocare gli istinti innati e incontrollabili dell’uomo provoca, oltre che la perdita della propria identità, anche ripercussioni negativi dal punto di vista salutare. Non solo, l’impatto estremamente negativo si ripercuote sul partner che si ritrova a “subire” una privazione a Lei non dovuta, ma come uno specchio, questa, patisce la stessa pena del compagno.

L’aspetto su cui ci si dovrebbe soffermare non è solo ed esclusivamente sulla consumazione dell’atto sessuale, ma bisogna riflettere sulle conseguenze negative che la negazione di esprimersi liberamente ha sull’unione familiare. Spesse volte, nella popolazione detenuta, esiste un elevatissimo numero di divorzi proprio perché il sistema penitenziario, così com’è oggi impostato, porta alla mortificazione dei rapporti affettivi e alla impossibilità di coltivarli.

Negli istituti penitenziari i colloqui avvengono per un’ora a settimana in stanze enormi con decine di famiglie che incontrano i loro cari e già questo inibisce anche ad una semplice carezza; non ha nulla del calore familiare, non riservatezza alcuna, sono rumorose ed è espressamente vietato lasciarsi andare ad una carezza, perché si viene richiamati dall’agente e in molti casi non è possibile tenere in braccio il proprio figlio.

In regime di 41bis i colloqui avvengono dietro un vetro divisorio e con la presenza dell’agente, oltre che dal controllo visivo e uditivo. Ma anche le lettere con cui tutti i detenuti cercano di coltivare i propri affetti vengono, sia in ingresso che in uscita, censurati. Lette, spulciate da agenti che hanno il compito di analizzare che tra le righe non vi siano messaggi in codice.

Spesso il luogo di detenzione è fuori dalla regione dove risiedono i familiari e perciò quell’ora di colloquio consentita, causa i disagi e spesso le difficoltà economiche, viene effettuata per una o due volte l’anno.

Questo “divorzio” dagli affetti, quindi, è davvero drammatico e non avviene solo tra coniugi, ma anche tra padri e figli, tra nonni e nipoti, tra fratelli, tra amici… e crediamo non ci sia dolore più grande che avere un padre in vita e non poterlo neanche abbracciare, essere padre e figlio, ma allo stesso tempo perfetti sconosciuti.

Da sacerdote attento all’essere umano ho da sempre avuto a cuore, in particolare modo, l’uomo inteso come carcerato e ho sempre manifestato la volontà di conoscerli, incontrarli, ascoltarli e dare loro una parola di conforto. Per tale motivo conoscendo le sezioni dell’Alta Sicurezza o del regime differenziato di cui all’art. 41bis (definito “carcere duro”) e accogliendo detenuti in permesso premio, saprei benissimo descrivere quali sono le tante illogicità che oramai fanno parte, più che delle leggi, delle regole non scritte impresse nel modus operandi dei vari Magistrati che a volte decidono senza alcuna consapevolezza di cosa sia il carcere.

Eppure, con la riforma penitenziaria del 1975 si dava attuazione all’articolo 27 Cost. «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Pensate, principio costituzionale pensato e scritto dai nostri padri costituenti e rimasto inattuato sostanzialmente dal 1948 e aveva il chiaro significato di rompere con il vecchio sistema fascista che vedeva nell’espiazione della pena esclusivamente un fine punitivo.

Per questo è inaccettabile, oltre che vergognoso, che in un Paese come l’Italia democratico e liberale quel principio rimanga solo sulla Costituzione e in rarissimi casi viene messo in pratica, tutto è rimesso all’ampia forbice di discrezionalità del Giudice.

Il nostro intendo non è polemizzare, ma attirare l’attenzione verso un mondo la cui realtà è spesso diversa rispetto a quanto previsto dall’ordinamento penitenziario.

Ma dovremmo indignarci se per arrivare ad una svolta significativa, dobbiamo attendere, paradossalmente, che l’Italia venga condannata per i trattamenti inumani e degradanti da parte della Corte Europea che chiedeva, al Governo italiano, di introdurre un istituto giuridico che poteva dare, ai rapporti familiari, l’importanza che hanno, anche in vista di un positivo reinserimento nella società del condannato e per fare in modo che specie i figli piccoli non subissero il trauma di incontrare il genitore in luoghi davvero angusti.

Teniamo a sottolineare che non siamo a favore “delle stanze del sesso” come volgarmente sono state etichettate, ma siamo più che favorevoli affinché possano crearsi dei luoghi, riservati, dove potere mantenere inalterata l’armonia del nucleo familiare.

Per tale ragione sono stati introdotti, nel 2015, gli  Stati Generali dell’Esecuzione Penale che ha coinvolto Magistrati, giornalisti, esponenti politici, il mondo del volontariato, ma anche i detenuti ristretti presso il carcere di Padova.

Anni di intenso lavoro per arrivare ad una proposta che desse, all’Europa, l’idea che l’Italia fosse davvero un Paese democratico e civile.

           

Ma la questione è stata accantonata dalla riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018.

E pensare che è dal 1999 che in varie occasioni si è tentato di riformare il sistema penitenziario, senza mai riuscirci.

Anche per questa radicata resistenza, numerosi e numerose esperte parlano di una «silente, ma indiscutibilmente consapevole, volontà del legislatore tesa a impedire l’emersione del diritto»

Un’altra importante iniziativa è stata avviata dal viaggio nelle carceri dei Giudici Costituzionali. Qualcosa da potere definire epocale considerando il fatto che era la prima volta in assoluto, da quando è nata la Repubblica, che sette Giudici delle Leggi si recassero in prima persona nelle carceri.

Un incontro tra due umanità, entrambe “chiuse” dietro un muro e apparentemente agli antipodi: da un lato la legalità costituzionale, dall’altro lato l’illegalità, ma anche la marginalità sociale. Attraverso la fisicità, l’ascolto, il dialogo, il Viaggio diventa occasione di uno scambio reciproco di conoscenze, esperienze, e talvolta di emozioni. Ma è anche la metafora di un linguaggio che non conosce muri, e che anzi li attraversa, perché è il linguaggio (ritrovato e condiviso) della Costituzione, la casa di tutti, soprattutto di chi è più vulnerabile.

 

Il viaggio della Corte nelle carceri italiane non nasce dall’acquisita consapevolezza di trasmettere quei valori di integrazione e di dignità degli individui, principi che stanno tutti nella Costituzione e di trasmettere la loro concretezza, al di là delle torsioni del gioco politico e dei suoi tatticismi su valori costituzionali non negoziabili.

Il carcere è, in questo senso, uno dei luoghi più carichi di significati perché proprio lì, attraverso la Costituzione la democrazia offre la scena dello scambio simbolico tra Stato e comunità, rinnovando le intuizioni più profonde sui valori sociali dell’uguaglianza e della funzione rieducativa della pena nel rispetto della persona umana e della sua dignità.

11/12/2020

Sac. Antonino Scilabra

Carmelo Vetro

14/20 In Principio era la parola…adesso smarrita.

Oggi vogliamo trattare il tema del “buon Cristiano” facendo un breve cenno storico sul Cristianesimo.

Il Cristianesimo consiste in un Avvenimento storico: nel fatto, cioè, che Dio è entrato nella storia dell’uomo e si è fatto carne, rendendosi incontrabile nella Persona di Gesù Cristo. Giovanni 1:1 dice: “In principio era la Parola e la Parola era con Dio e la Parola era Dio” e al verso 14 aggiunge: “E la Parola si è fatta carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Questo evento è quello che noi cristiani chiamiamo Incarnazione.

Quindi la parola “cristiano” significa “come Cristo” o “essere come Cristo”. Il cristiano è un “salvato” per antonomasia.

Però ad una certa percentuale di cristiani piace il fascino del terrore. Forse attratti da una condizione di apparenza e non di sostanza. I Potenti spesso si comportano governando il mondo con la paura. Facendo leva su quegli istinti primordiali che sono tipici di una lotta per la sopravvivenza. Questi pseudo Potenti infondono nella gente il terrore che essere liberati da “qualcuno” sia la loro salvezza. Per questo il popolo si tiene bene aggrappato alle proprie catene e si opporrà con tutte le sue forze verso chi vorrà spezzare quelle catene. La predicazione cristiana è un annuncio di liberazione a disposizione di tutti gli uomini.

Purtroppo, molto spesso ci vantiamo di appartenere a qualcosa senza conoscerne il vero significato. Cristo era un uomo che andava contro corrente, non gli importavano le mode, gli usi paesani, plasmarsi a seconda della folla che si trovava davanti per ottenere il consenso ad ogni costo, ammettendo o smentendo tutto e il contrario di tutto. No, il nostro Cristo alla paura preferiva la bellezza, la gioia, la bontà; preferì essere crocifisso per non tradire sé stesso e per la salvezza dell’uomo.

Stiamo riflettendo attorno al cristianesimo e al Cristiano perché vorremmo anche noi, operatori dell’associazione ODV San Giuseppe Maria Tomasi, essere controcorrenti; non vogliamo abbracciare la politica del terrore, la diffusione di teorie strampalate come per esempio che il “diverso” sia il male in questo mondo. Che poi chi sarebbe il “diverso”?

In questi giorni abbiamo dovuto, nostro malgrado, subire l’onda della teoria folle di un “buon Cristiano”; un signore la cui abitazione confina con la sede del nostro centro.

Un signore che ha deciso di non essere controcorrente, ma di abbracciare la folle teoria del terrore, della falsità, del gettare fumo agli occhi a chi come lui ama le teorie complottistiche e prive di qualsivoglia fondamento realistico e ha ben pensato di riversare tale atteggiamento su Don Vito.

Il nostro lettore si starà chiedendo cosa sia stato capace di fare Don Vito per “offendere” la sensibilità Cristiana di questo nostro confinante. Ebbene molti sapranno che all’ingresso del nostro centro c’è esposto il crocifisso, piccolo, che si illumina d’azzurro quando la notte scende. Quel Crocifisso è l’unico a dare uno spiraglio di luce in mezzo alle tenebre.

La luce azzurra si è spenta per alcuni giorni (non da anni). Secondo alcuni la centralina si è bruciata per causa naturale, per altri, quella centralina maledetta ha deciso di opporsi alla bellezza, alla gioia che Cristo predicava e non essere controcorrente; ha abbracciato la teoria del terrore e complottistica del nostro vicino.

In verità don Vito ha delle colpe; si, proprio così caro lettore, Don Vito ha peccato di eccesso di buonismo tant’è che dedicando la sua vita agli ultimi, a chi vive ai margini della società, ai detenuti, ai migranti, alle famiglie che vivono di stendi, alle persone che chiedono il suo conforto per superare i momenti difficili che la vita ci pone, ha perso di vista la luce azzurra del crocifisso che per alcuni giorni non si è illuminata. Era troppo impegnato a dare luce alla vita di moltissime persone che vivono momenti bui e delle loro famiglie, hanno sostenuto i più. Ma secondo il nostro “caro” vicino la luce è stata appositamente spenta da Don Vito per non offendere la sensibilità degli ospiti Musulmani. E ancora, Don Vito non ha alcuna sensibilità nei confronti della propria religione.

Noi, operatori del centro, ci siamo permessi di “interrogare” don Vito sull’accaduto, l’abbiamo “torturato” psicologicamente per ottenere la verità e del perché, lui così attento a tutto ciò che Dio ha creato, ha potuto fare una cosa del genere.

Dopo esserci accalcati, attorno a don Vito, come quando la piazza impazzita condannò nostro Gesù sulla croce, la risposta calma, pacata e sincera di don Vito ci riportò alla normalità. Semplicemente la luce si è spenta per cause naturali, la centralina era morta; nessun complotto, nessuna offesa, nessuna trascuranza nei confronti dei Cristiani. L’unica spiegazione era la realtà, l’unica possibile, la più semplice, eppure, tutti noi, spesso, non ci accontentiamo della teoria più semplice, preferiamo elargire paura, preferiamo la teoria del sospetto, tanto, con il sospetto, qualsiasi falsità, se ben manipolata diventa realtà.

Adesso la luce si è riaccesa, vedere la luce farsi strada tra le tenebre e illuminare la strada per tutta quella gente che la sera ritorna a casa dopo una giornata di lavoro è qualcosa che ha a che fare con la bellezza. In ogni caso Don Vito ha imparato la lezione e per evitare al nostro “buon Cristiano” di turno di perdere il suo tempo a costruire inutili teorie complottistiche ha illuminato, a 300mt da quel crocifisso, anche una statua del Cristo redentore per indicare la strada a tutti coloro che amano seminare discordia. L’unica cosa che conta è sentirsi tutti figli di Dio e da lui amati.

Buona meditazione!                                                                                 

 

13/20 “L’umanità avrà la sorte che saprà meritarsi” (ALBERT EINSTEIN)

In queste ultime settimane, ascoltando la tv o leggendo i giornali, mi sono accorto che uno dei termini più utilizzati è stato umanità. Mi sono chiesto, allora, se davvero ne conosciamo a fondo il significato, se sappiamo ancora distinguere l’umano dall’artificiale e, soprattutto se i “nativi digitali” riescano ad attribuire un senso autentico a questa parola.

Gran parte di questo anno abbiamo dovuto convivere con il COVID, oramai la nostra quotidianità viene condizionata dalle limitazioni o dalla paura dei contagi, eppure rimbomba sempre la parola umanità; umanità per chi viene contagiato, i loro familiari, i medici, gli infermieri; umanità (non riscontrata nella realtà) per i detenuti, per la penitenziaria. In pratica sentiamo invocare umanità anche se i più sconoscono il vero significato.

Secondo il vocabolario Treccani la parola umanità non è altro che “la condizione umana, soprattutto con riferimento alle caratteristiche, alle qualità, ai vantaggi: la fragilità, la debolezza, i difetti, l’imperfezione”. L’umanità è un sentimento, quello che sottende alla solidarietà reciproca, di comprensione e indulgenza verso l’altro.

Come tutti i sentimenti, può essere sviluppato attraverso l’educazione. Essere umani vuol dire superare quei comportamenti che ci riducono molto simili a dei robot; la società in cui viviamo, basata sulla competizione e sulla prestazione ci rende vulnerabili e poco inclini ad accettare gli errori, i difetti, le storture, le frustrazioni, le imperfezioni fisiche, tutto ciò che risulta “diverso dalla norma”, tutto ciò che definisce un uomo o una donna.

I più quindi, pensando alla parola umanità, si soffermeranno alla superficie piuttosto che sul vero significato; noi invece, operatori dell’associazione ODV San Giuseppe Maria Tomasi, vogliamo cogliere il significato che ci suggerisce la Treccani e operare quindi verso i più deboli, verso gli emarginati, detenuti, ex detenuti, gente senza una casa. porgiamo la mano ai migranti con l’ambizione di strappargli un sorriso e farli sentire in casa loro dopo anni di soprusi, torture e indifferenza mondiale. A loro rivolgiamo la nostra “umanità”.

Secondo Edgar Morin, sociologo e filosofo, il grande male non è tanto l’incomunicabilità, quanto l’incomprensione, l’indifferenza, l’egoismo non solamente tra cittadini di una stessa società, ma anche nei confronti dello straniero, del diverso da noi.

All’educazione, quindi, si chiede di partire non solo dalle competenze richieste dal mondo lavorativo e professionale, ma anche e soprattutto dalle competenze esistenziali. Il compito del processo di formazione diventa fondamentale se offre una comprensione umana, che richiede apertura verso l’altro. Partire dal riconoscimento empatico dell’altro, che appare diverso da noi, ci consegna strumenti forti per combattere razzismo, xenofobia, ma anche pregiudizi di genere e bullismo. La comprensione richiede ascolto, permette una partecipazione emotiva al sentire dell’altro, permette di calarsi in un contesto sempre nuovo con capacità di adattamento incredibili. La comprensione permette di tenere lontano il rifiuto degli altri, perché comprendere significa entrare in relazione, creare un legame, un filo impercettibile fatto di scambio reciproco e di confronto.

Preparare un mondo vivibile si può, lavorando con le future generazioni, infondendo il senso di cittadinanza terrestre, quella che ci vede tutti cittadini dello stesso pianeta, quella che ci rende appartenenti ad un’unica sola e grande razza, quella umana. L’umanità si può imparare, si può vivere nella quotidianità, si può insegnare attraverso un’educazione attenta all’affettività, alle emozioni, all’empatia, al confronto, alla

comprensione, alla resilienza. L’umanità è il sentimento universalmente riconosciuto, che identifica ognuno di noi, che ci rende simili, assomiglianti, vicini, solidali, uniti. Umani, insomma.

Don Vito Scilabra

Carmelo Vetro

12/20 Il Disagio Giovanile

L’adolescenza
è una fase delicata e complessa. Dietro ai loro comportamenti difficili, i
ragazzi celano un disagio che spesso le famiglie non sono in grado di
comprendere, né di affrontare, e ogni giorno fanno i conti con una scuola che
rifiuta, che allontana anziché sostenere.

L’etica
dell’interdipendenza e della responsabilità è ancora una meta difficile per
molti adulti del nostro tempo, figuriamoci per i ragazzi; nel sociale e nei
rapporti con la natura, l’arroganza, l’interesse personale e lo sfruttamento.

Se trova un
buon terreno di confronto e non vieni troncato al suo nascere, il grido
scomposto di libertà dell’adolescente può evolvere nel senso dell’assunzione
consapevole dell’interdipendenza come sistema di relazioni e scambi.
L’alternativa a ciò è il mito di un sé onnipotente che può mettersi in
relazione con l’altro solo attraverso la “grandiosità” di inglobare l’altro in
rapporti fusionali ( come il bullismo).

Il disagio
giovanile oggi potrebbe essere imputato, non tanto alla crisi psicologica a
sfondo esistenziale che caratterizza appunto l’adolescenza e la
giovinezza,  quanto a una crisi
culturale, perché il futuro che la cultura prospetta ai giovani è qualcosa di
imprevedibile, incapace di incidere profondamente a sostegno del proprio
impegno nella vita.

Spesso i
ragazzi non riescono a esprimere le loro paure, le loro ansie, non ne parlano
con i genitori e non lo fanno con le insegnanti e dunque si affidano ai social
come metodo per vivere relazioni sociali, spesso, descrivendosi come quelli che
vorrebbero essere consapevoli che uno “schermo” non possa giudicarli.

Quindi
l’incessante impegno da fare in ambito educativo, della marginalità, del
disagio, della devianza, richiederebbe un’entità teorica e pratica forte che
possa fare da bussola nell’emergenza sociale in cui gli operatori sono chiamati
a rispondere.

I centri di
detenzione per minori sono forse lo specchio di una società “civile” incapace di
risolvere sul nascere una situazione di disagio in cui il ragazzo vive; troppe
volte la causa dei reati minorili sono la conseguenza di  essere nati e cresciuti in ambienti familiari
difficili, in quartieri difficili…allora ci chiediamo? Se oramai è
consolidato il dato che vivendo determinati contesti di “ghettizzazione” i
ragazzi sono a rischio, perché non intraprendere una lotta alla non cultura?
Perché non porre la presenza costante delle Istituzioni diffondendo la cultura
del sapere, del conoscere, di uscire da quegli schemi che non fanno conoscere
la vita aldilà del “quartiere”… molti ragazzi avrebbero potuto salvarsi e
molti altri possono essere salvati dalle grinfie del malaffare.

Quindi,
l’obiettivo che dobbiamo prefiggerci è di favorire la formazione di un giovane,
che da adulto troverà in se la forza per non essere sconfitto dalla vita, per
non fondare la ragione del proprio vivere sull’avere ma sull’essere se stesso,
per non cercare fuori di se, nella droga, nell’alcool e nel rifiuto della vita,
la risoluzione dei propri problemi.

Da ciò la
necessità di un forte impegno preventivo nei confronti del singolo soggetto, ma
anche nei confronti delle famiglie e del contesto micro – sociale, al fine di
scongiurare il formarsi di un uomo favorevole all’insorgere di forme di disagio
giovanile sempre più problematiche e ingestibile sul piano sociale.

 

Don Vito Scilabra

Carmelo Vetro

11/20 “dei delitti e delle pene”

.“Col nome di
tortura non intendo una pena data a un reo per sentenza, ma bensì la pretesa
ricerca della verità co’ tormenti… I fautori della tortura cercano di calmare
il ribrezzo che ogni cuore sensibile prova colla sola immaginazione del
tormento. Poco è il male dicon essi che ne soffre il torturato, si tratta d’un
dolore passeggero per cui non accade mai l’opera di medico o cerusico, sono
esagerati i dolori che si suppongono. Tale è il primo argomento col quale si
cerca di soffocare il naturale raccapriccio che alla umanità sveglia la idea
della tortura”

Questo è un breve passaggio tratto da, ne dei delitti e delle pene, di Cesare Beccaria individuando
l’indifferenza umana davanti alla tortura perpetrata ai danni del condannato.

Impressiona la vicinanza di pensiero che esisteva quando Beccaria,
a proposito della tortura,  scrisse il
saggio (1764) e quella odierna.

L’uomo nei secoli è riuscito in opere davvero straordinarie dando
prova di una intelligenza che diventa sempre più fine; oggi non esistono limiti
nella ricerca, è praticamente possibile creare, inventare, raggiungere ogni
obiettivo.

Eppure quando si parla di temi sociali molto vicini tra loro
quali: carcere e migranti si assiste ad un indegno gioco da parte dei poteri
forti, facendo a gara su chi è più severo nel condannare o respingere i
migranti.

Si è perso il senso della ragione perché quel che conta è
allontanare il “male” dalla società perbenista e si cerca di fare un vero e
proprio terrorismo psicologico sulle persone.

Per noi operatori del centro il Vangelo è il nostro riferimento,
Gesù Cristo diceva di amare i nostri fratelli e questo è il faro su ci orientiamo,
oltre che la Costituzione Italiana e le leggi. Non si possono giustificare i
reati in una società civile, è ovvio, ma ogni pena deve essere commisurata e
soprattutto lo Stato non può adottare comportamenti punitivi e vendicativi nei
confronti di chi per qualsiasi ragione ha rotto il patto sociale o verso uomini
che scappano da territori dove succedono cose indicibili.

Molti esprimono indignazione, paradossalmente, quando un Giudice,
conformandosi alla legge,  concede i
domiciliari a detenuti in fin di vita e che magari hanno trascorso metà della
loro vita in carcere, mentre gli stessi non si creano nessuno scrupolo quando
qualcuno muore sotto la propria custodia.

Si giustificano le torture psicologiche (perché non dimentichiamo
che il carcere così com’è oggi organizzato è utile solo a fare incattivire le
persone, non le rieduca affatto e non li aiuta nel reinserimento sociale) con
la pericolosità sociale;

Ma la
Giustizia non può essere vendicativa; un Giudice disse << La migliore  medicina contro il male è l’amore e le attenzioni>> qualcuno gli domandò: << e se non funzionano?>> rispose: <>.

La nostra società oggi non riesce più a distinguere la crudeltà
dalla giustizia e si alimenta una continua lotta su chi è più rigoroso.

Le famose leggi emergenziali, quali l’introduzione del regime del
41 bis, nascevano come extrema ratio per contrastare l’azione delle
associazioni; a distanza di trent’anni oramai sarebbe utile prendere atto che
il cosiddetto “carcere duro”, così com’è concepito, rappresenta un luogo di
tortura psicologica, ma i nostri politici hanno lo stesso atteggiamento di chi
affermava che << … Poco è il male,
dicono essi, che ne soffre il torturato, si tratta d’un dolore passeggero
…>>;

di certo non si tratta di violenze fisiche, o meglio non ci sono
solo quelle, ma ciò che “uccide l’anima” di un uomo è anche la violenza
psicologica pensata e perpetrata giorno dopo giorno esattamente come la goccia
cinese utilizzata come supplizio per i
condannati.

Vogliamo
concludere facendo nostre i pensieri di tre Magistrati a proposito del carcere.

Gherardo
Colombo
<<Ho cominciato a pensare che
il carcere non fosse più compatibile con il mio senso della giustizia, la mia
concezione della dignità umana, la mia interpretazione della
Costituzione… sentivo tutta l’ingiustizia della prigione
Sono convinto che il carcere, così com’è, è in
contrasto con la Costituzione. L’articolo 27 dice che ”le pene non possono
consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”… Basta mettere piede in
qualsiasi carcere, salvo rare e parziali eccezioni, per rendersi conto che le
condizioni in cui vivono i detenuti lo contraddicono scandalosamente
>>

Luciano Violante <<Non credo che oggi ci si possa
emancipare dal carcere in maniera assoluta. Però sono convinto che possiamo e
dobbiamo liberarci dal carcere in maniera relativa, rompendo il monopolio della
pena carceraria, limitando la galera al massimo e solo ai casi in cui non è
possibile fare altrimenti
Riformando
l’intera concezione della pena, che è rimasta ferma al Settecento, quando
nacquero le istituzioni totali… si è ancora fermi a un’idea antica, secondo la
quale chi rompe la fiducia della comunità merita di essere estromesso dalla
società, spinto in un luogo ai margini, com’è il carcere… Occorre al contrario
virare su una “concezione moderna: la pena dovrebbe servire a ricostruire
la relazione. Già nell’Antico testamento c’è un concetto che è stato sepolto
sotto millenni di pratica dell’emarginazione del colpevole. La parola tsedakah
viene tradotta con il termine giustizia, ma in realtà significa “ristabilire il
rapporto” …Riconciliare chi ha infranto le regole della comunità con la
comunità stessa>>

 

Giovanni Maria Flick <<Un modello “da superare, perché, in molti casi,
non rispetta la dignità del detenuto. Non garantisce quei principi che pure
sono scritti, nero su bianco, nell’articolo 27 della Costituzione”.

Flick sostiene che il
primo impegno è assicurare quelle che definisce “condizioni culturali: la
società deve essere in grado di assumersi un rischio. Di accettare che potrebbe
accadere che qualche detenuto che sconta la pena in casa torni a commettere
reati. Ma si può fare in modo che ciò, tendenzialmente, non accada. O che si
verifichi il meno possibile. Innanzitutto non abbandonando il condannato a sé
stesso. Poi, perché un modello del genere possa essere messo in pratica, è
necessario che la politica la smetta di utilizzare le carceri e il sistema
penale come strumento di persuasione e di paura… C’era
un tempo in cui la saggezza del nostro sistema consentiva di distinguere l’uomo
dal fatto che ha commesso
>>.

 

Che
gli uomini di buona volontà traggano le loro conclusioni…

10/20 L’Art. 3 Cost.

<<È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese>>                   Ho sempre pensato che la nostra Costituzione contenga tutto ciò che di bello e alto debba esserci in un paese democratico e civile. Rimango sorpreso per quanto siano stati illuminati i nostri padri costituenti perché, penso sia pensiero condivisibile, l’Italia è sempre stata una grande nazione e come tale ha il dovere di comportarsi; la nostra Costituzione è la prova che c’è perfetto equilibrio nella suddivisione dei poteri e tutti noi, cittadini italiani, siamo chiamati al rispetto dei doveri per potere pretendere i nostri diritti.      

 Ho voluto trascrive l’Art. 3 della nostra costituzione perché sarebbe cosa giusta se si potesse tradurre in fatti ciò che 72 anni fa era stato previsto. Purtroppo esiste da sempre una colossale differenza tra dire o scrivere una cosa e tradurre la stessa in realtà.

In questo periodo così grave per la nostra umanità, ci accorgiamo della fragilità del nostro paese; della fatica che fa per assicurare le giuste condizioni ai Medici, Infermieri, ai lavoratori in generale che in questi giorni sono impegnati con coscienza in quello in cui credono. Fatica ad aiutare i più bisognosi, penso a tutte quelle persone che non hanno un tetto dove stare e, mentre sentiamo da più parti le raccomandazioni di non uscire di casa, di proteggerci e proteggere così ognuno di noi, io penso a loro che nonostante tutto questo vivono per strada con la disperazione negli occhi per la consapevolezza di non potere fare diversamente. Penso ai bambini Africani e al fatto che il virus si sta diffondendo anche tra di loro e la cosa straziante è sapere che nessuno, probabilmente, li aiuterà considerato che ogni paese è impegnato a salvare i suoi figli e questi territori, già fortemente in difficoltà, rischiano un numero di decessi inimmaginabile. Penso ai detenuti e detenute; penso a questa gente che vive con la paura e con l’incertezza del loro futuro. In carcere puoi toccare con mano, già nella normalità, l’assenza di attenzione, la superficialità con cui si viene trattati.

Chi ha una minima conoscenza del carcere sa già che isolare i detenuti è impossibile da tutti i punti di vista e la causa principale è il sovraffollamento. Purtroppo il nostro bel paese moderno e democratico arranca e non poco davanti alla risoluzione di situazioni di emergenza. Eppure l’emergenza carcere viene “gridata” fin dalla notte dei tempi dai radicali, dalle associazioni di volontariato, ma anche e soprattutto dalla Chiesa Cattolica. Chi vive il carcere quotidianamente, come i volontari e i cappellani, conosce le difficoltà di ogni giorno. Vorrei aprire una breve parentesi per ringraziare i sacerdoti che rappresentano davvero un conforto per i detenuti e per chi vive tra gli emarginati. Sono loro che con pazienza e dedizione raccolgono gli sfoghi, in carcere ciò di cui si ha un disperato bisogno è quello di essere ascoltati e sentirsi trattati da esseri umani e non come un inutile oggetto. Parecchi hanno un’idea distorta da quanto la Chiesa faccia e ritengo giusto, in un momento come questo, rivolgere un pensiero di gratitudine verso chi ogni giorno fa proprio il dolore e il bisogno dell’altro.

Chi come me conosce la vita detentiva, posso assicurare che la presenza dei preti è come vedere il sole in mezzo alla tormenta. Ci si scandalizza quando si parla di concedere qualcosa a un detenuto e spesso diamo la nostra opinione senza capire bene le dinamiche e non conoscendo il nostro ordinamento.

Quello che sarebbe importante è la presa di posizione del nostro Governo facendo un ragionamento molto semplice e cioè quello di concedere, a detenuti che hanno un residuo di pena abbastanza basso, una misura alternativa al carcere, bisogna farlo adesso perché di tempo non ce ne!

In questo modo, oltre a risparmiare i soldi dei contribuenti, perché non dimentichiamo che ogni detenuto in carcere ha un costo per loro, si eviterebbe di assistere ad una tragedia senza precedenti nel nostro paese, la propagazione del virus in carcere significherebbe RI-condannare i detenuti, (questa volta a morte) i Medici, gli Infermieri e gli agenti della penitenziaria (due agenti sono morti a causa del virus). Da queste emergenze, l’Italia dovrebbe imparare a dotarsi di strumenti forti per fare fronte a situazioni di imprevedibilità com’è questa pandemia.

Un altro allarme sociale è rappresentato dalla mancanza di reddito familiare sufficiente affinché il detenuto possa far rientro presso il proprio nucleo. Una situazione di questo tipo, oltre che a mortificare la dignità di chi è coinvolto, dovrebbe mortificare l’animo di un Paese che rappresenta la quinta potenza economica Europea. Tutti noi stiamo sperimentando quanto sia difficile starcene a casa privati della nostra libertà per amore del bene più prezioso che è la vita. Eppure noi stiamo comodamente sul divano, con internet, con i cellulari, con il lavoro da casa, con il pane fatto in casa che, in questo momento triste, rappresenta un momento di condivisione familiare che spesso trascuriamo nella consuetudine di ogni giorno. Eppure ci lamentiamo perché ogni libertà è sempre poca. Allora in questi momenti pensiamo a chi vive tra gli ultimi, ai detenuti che darebbero qualsiasi cosa per starsene rannicchiati in un angolo della propria casa pur di viversi il calore familiare o sentire la voce dei propri cari; pensiamo a chi in questo momento è in ospedale; a chi muore senza la carezza di un proprio caro; ai senza tetto che hanno smarrito quasi del tutto la forza di ritrovare la dignità che ogni uomo non dovrebbe mai perdere; pensiamo agli immigrati che vivono in solitudine pure stando in mezzo agli altri; pensiamo semplicemente a chi in questi giorni è costretto a lavorare per assicurare ogni tipo di assistenza dai medici alle forze dell’ordine, ai camionisti che percorrono il nostro paese per le scorte alimentari.

Ecco allora l’Italia divisa in due: da una parte quella magnifica perché riesce, nonostante tutto, a mettere il proprio genio per la risoluzione dei problemi; dall’altra un’Italia che sembra la vanificazione della prima.

Don Vito Scilabra

Carmelo Vetro

9/20 La vita in una gabbia

Una delle esperienze, che mi porto dietro, è il progetto con le scuole che si teneva all’interno del carcere di Padova.

Le scolaresche impegnate nel progetto erano delle superiori o studenti universitari; ragazzi che difficilmente si lasciano imbrogliare da una risposta superficiale; loro ascoltano, riflettono sulla storia raccontata e poi non risparmiano nessuna domanda, vogliono sapere, hanno il diritto di sapere, di capire dove, quando e perché un uomo decide di rompere il patto sociale e vivere fuori dalla legge.

Una delle domande frequenti dei ragazzi era: come passate le giornate? Com’è la vostra cella? Personalmente sentivo rimbombarmi nella testa una frase di S. Agostino: <<cos’è il tempo? Se nessuno me lo chiedo lo so, ma se provo a spiegarlo a chi me lo chiede non lo so più>>.

La vita detentiva è davvero difficile da spiegare, ogni cosa non ha nulla a che vedere con le cose reali di ogni giorno, devi avere un forte senso di adattamento e di pazienza.

Ancora oggi mi porto dietro delle cicatrici, ad esempio non sopporto il verbo aspettare. In carcere pure quando chiedi di andare a fare la doccia, pure quando la doccia è vuota devi aspettare; aspettare cosa? Non c’è una logica infatti, non ci sono risposte, il detenuto non merita nessuna gentilezza: devi aspettare.

Allora mi chiedo di quale RI-educazione si parla? Devi essere così forte e intelligente da capire da solo qual è la strada che ti porta a RI-consegnarti alla società civile come un uomo migliore, come uomo che ha capito cosa davvero conta nella vita e facendo tesoro dei propri errori, ma quando questo non accade? Quando ci si abbandona alla disperazione e alla rabbia? Lì il rischio è di trasformare irrimediabilmente il tuo essere, divenendo a poco a poco simile ad un animale o lasciandoti morire giorno dopo giorno.

Ho voluto pubblicare uno “scarabocchio” che vuole indicare la cella tipo di un nostro istituto penitenziario.

Vorrei rispondere a quei ragazzi che incontravo a Padova: “Ecco ragazzi questo è il luogo dove un detenuto viene rinchiuso per 20h al giorno in compagnia di un’altra persona (quando si è fortunati). Provate a immaginare, con il dramma del virus che oramai tutti conosciamo, come sia possibile mantenere, come prima cosa, la distanza di sicurezza tra un detenuto e un altro; come sia possibile assicurare una corretta igiene, se già nella normalità è drammatica”.

Nello spazio detentivo, la c.d. cella, si utilizza il locale bagno come luogo non solo dove espletare i propri bisogni fisiologici, ma anche dove cucinare, tenere le conserve, la frutta, la verdura, il pentolame, le scarpe; e se la cella ha ridottissimi spazi, il bagno è qualcosa di ridicolo e spesso senza alcuna finestra.

Si è costretti a stare in quelle condizioni anche con altri tre, quattro, cinque detenuti ed è lì che si impara a sopportare; è un luogo così pieno di tristezza e di privazione che ci si abitua a ogni genere di vita.

Allora immagino i tanti detenuti che vivono queste giornate senza potere telefonare ai familiari (notizia di oggi che il D.A.P per fortuna si sia attivato per mettere in comunicazione i familiari con i detenuti); immagino lo stato d’animo dentro le sezioni con le notizie che sentono alla TV e che inevitabilmente vengono ampliate, semmai ce ne fosse bisogno in verità, all’inverosimile.

Leggere poi, di alcuni giornalisti, che pensano che far tornare a casa i detenuti sia un peso per i familiari ha il sapore di un insulto e ritengo davvero ingiusto offendere sia le persone private della libertà, sia i familiari che tuttalpiù hanno la “colpa” di voler bene a un loro caro e allora schierarsi dalla parte dei “garantisti alle vongole” è necessario per non sminuire il lavoro quotidiano di tantissima gente volontaria, presenza di inestimabile valore  per far funzionare la macchina penitenziaria.

Penso ai detenuti e leggere dichiarazioni in cui si dice che la situazione sarebbe sotto controllo mi fa pensare: ma siamo sicuri che coloro che in questi giorni, in queste ore, stanno decidendo la sorte di detenuti, medici, infermieri e polizia penitenziaria sappiano cosa sia una cella e le sue dimensioni?

Perché di soluzioni non ce ne sono tante: o in tempi estremamente brevi si pensa ad una alternativa consentita dall’ordinamento oppure si fatica a capire quale sia la soluzione. Certo è che i nostri istituti di pena non hanno una capacità tale da ospitare, in cella singola, tutti i detenuti e se dovesse essere necessario il ricovero a massa dei detenuti, potremmo assistere al collasso totale del sistema sanitario.

E allora non ci resta che sperare nel Governo e nel D.A.P affinché adottino misure idonee per bloccare la prospettiva, purtroppo scontata continuando in questa maniera, che il virus si diffonda nelle carceri condannando (ancora una volta) detenuti, medici, infermieri e polizia penitenziaria a gravissime conseguenze per la salute propria e dei loro cari, l’Italia non deve permettere che ciò accada.

Don Vito Scilabra

Carmelo Vetro

8/2020 Il Giusto

Il Giusto.

In questi giorni così tristi per la nostra umanità ho cercato di scrivere, di mettere giù i miei pensieri, ma sono stato interrotto da una specie di impotenza, di angoscia non sapendo come incidere (senza presunzione ovviamente) nella mente di chi oggi ha il delicato compito di decidere per la vita di 60 milioni di abitanti o di chi non smette di inondare questi giorni di false notizie.

Mi è tornata in mente la storica “Colonna Infame” di Alessandro Manzoni.

La vicenda narra del processo subito dal bottegaio di quartiere. Siamo nel 1630 e l’Italia viveva una terribile peste. A seguito ad un’accusa, ad opera di una “donnicciola”, Gian Giacomo Mora venne ritenuto responsabile del contagio pestilenziale, tramite l’utilizzo di misteriose sostanze, che mieteva vittime dal Nord al Sud.

Il processo decretò la condanna capitale di due innocenti giustiziati con il supplizio della ruota e venne eretta, come monito, la “colonna infame” sulle macerie dell’abitazione del Mora.

La giustizia, esattamente 148 anni dopo, fa abbattere la colonna infame perché quel caso fu decretato come un atto di ingiustizia; il barbiere Mora era innocente, così come il commissario di sanità Guglielmo Piazza.

Mi torna in mente questa vicenda, la sento crescere prepotente dentro di me e sento che un accostamento sensato ce l’abbia con quello che stiamo vivendo oggi.

Nessuno, o quasi, si muove per adottare provvedimenti incisivi e necessari per la salvaguardia di vite umane, parlo della vita di detenuti, medici, infermieri e polizia penitenziaria che ogni giorno non possono fare altro che entrare in quei luoghi tristi e privi di ogni umanità per fare il loro dovere.

Ma fino a che punto questo sarà ancora possibile? Può essere accettabile scoprire, tra qualche settimana, che si poteva fare di più? O succederà come al Barbiere Mora che la Giustizia si è mossa dopo 148 anni? La nostra umanità non ce l’ha questo tempo, non possiamo aspettare e non possiamo far vivere i familiari dei detenuti in perenne ansia per la sorte dei loro cari; non possiamo far vivere ai detenuti i loro già tristi giorni in ansia per i loro cari.

Il carcere detta delle regole non scritte, non c’è un tempo, la vita dentro quelle mura vive un corso che niente ha a che fare con la vita reale; ogni cosa viene amplificata, ogni notizia è distorta. Le carceri Italiane (tranne che per limitatissime realtà) sono oggi l’università del crimine perché i detenuti vengono abbandonati al loro destino, paradossalmente ci si sente delle vittime proprio perché si perde il contatto con la realtà e non si comprende che spesso (non dimentichiamo chi davvero è vittima di ingiustizie e che nel migliore dei casi viene assolto solo dopo anni di carcere) si è solo vittime dei propri errori.

In questa tragedia umana, che stiamo vivendo, lo Stato non può sottrarsi ad adottare dei provvedimenti che sono necessari, ovviamente si parla di concedere “benefici penitenziari”, già previsti nel nostro ordinamento, a detenuti che hanno pochi mesi da scontare; sia ben chiaro ai cittadini che coloro che sono colpiti dall’art. 4bis Ordinamento Penitenziario sono esclusi da qualsivoglia beneficio, perciò sarebbe bello, per rispetto della nostra Costituzione e delle Leggi, che nessuno faccia inutili e pericolosi proclami con dichiarazioni false; non è lontanamente immaginabile pensare che le nostre strade saranno inondate da pericolosi “mafiosi”, “stupratori” e “spacciatori”.

Uno Stato democratico non può permettere che le sue carceri si trasformino in luoghi che seminano la morte tra coloro che quotidianamente li vivono e ancora una volta non mi riferisco solo ai detenuti.

Ogni cittadino Italiano, deve sapere che il detenuto, seppur detenuto, è UOMO E COME TALE ha diritto alla propria salute e lo Stato è in dovere di assicurargliela. Immagino la reazione dei  più Giustizialisti che gridano allo scandalo perché lo Stato deve sprecare le proprie energie per occuparsi di gente che ha seminato solo del male e al grido di  <<buttiamo via le chiavi>> c’è solo indignarsi. Purtroppo non è così e per fortuna i più sono Politici e Magistrati seri che sanno (anche se in questo caso non abbiamo tempo, i detenuti non possono rischiare di vedersi riconosciuto il proprio diritto alla vita, come nel caso di Mora, dopo 148 anni) che bisogna tutelare ad ogni costo, anche con provvedimenti speciali, la loro vita, che poi è quella di ogni cittadino italiano.

<<Ricordiamoci che un uomo non perde la propria dignità solo per il fatto di essere detenuto>> e questo non l’ho detto io!

 

Don Vito Scilabra

Carmelo Vetro

Articolo 7/2020

“Samba”

 Il Samba trova la sua origine a S. Salvador da Bahia, il porto dove venivano sbarcati gli schiavi rapiti nell’Africa Occidentale. Alla sua formazione contribuirono le tradizioni musicali di varie etnie africane, soprattutto Joruba e Naghò. Nel Samba originario (bajano) troviamo miscelati i ritmi delle liturgie di varie divinità appartenenti alle religioni di vari popoli africani, jongo, cateretè, batuca, bajao ed altri.

Ma non vogliamo parlare di questa famosa danza, il Samba a cui ci riferiamo è un ragazzo nato e cresciuto nella Nuova Guinea, un Africano che ha preso il suo nome, probabilmente, da un suo antenato che probabilmente secoli prima era stato fatto schiavo e sbarcato in brasile.

Samba viveva a Papua con la sua famiglia; quando era ancora un ragazzino venne mandato dal padre a lavorare nel terreno di famiglia; questo era praticamente in mezzo al deserto e Samba inizia a sognare una nuova terra, un paese dove possa realizzare i suoi sogni.

 Tante volte abbiamo letto o sentito parlare del come, su come o del perché uomini, donne, bambini e ragazzi scappano dai loro territori; ci siamo formati un’idea positiva o negativa su cosa sia l’accoglienza e l’abbiamo fatto prendendo come riferimento quello che sui social o sui telegiornali ci dicono; altre volte crediamo di avere un’idea “giusta” semplicemente perché tifiamo per una certa ideologia politica giustizialista in alcuni casi, garantista in altri.

Al centro di ascolto abbiamo formato la nostra idea di accoglienza vivendo ogni giorno le persone che arrivano carichi di speranza, ma con i segni visibili e non della stanchezza, delle atrocità subite; vivono con la paura di parlare addirittura per pronunciare il loro nome; noi li conosciamo e come sempre non vogliamo imporre nulla al lettore, riteniamo che l’uomo sia così intelligente che leggendo lo spaccato di vita davvero vissuto da un nostro “fratello” possa essergli da stimolo per mettere in discussione la propria idea eventualmente distorta sul perché migliaia di persone scappano abbandonando tutto per trovare un po’ di pace SE riescono a sconfiggere la morte.

 Parlavamo di Samba.

Un giorno conosce un suo coetaneo che come lui lavorava il terreno di famiglia e decidono di partire. Si lasciano alle spalle la famiglia, la povertà e iniziano il loro viaggio verso il Senegal, Mali, Niger e la Libia. Attraversano queste nazioni nell’arco di più settimane con molteplici espedienti, con le tasche vuote e con loro solo uno zaino e qualche litro d’acqua.

L’ultima viaggio verso la Libia lo fanno a bordo di un’auto con 18 persone dentro, di notte si viaggia e di giorno si riposa per paura di essere scoperti dall’esercito.

Arrivati in Libia vengono accompagnati in una struttura, vengono invitati a riposare e di aspettare la nave che li porterà via da quel territorio dove esiste solo la morte. Non hanno la forza per gioire riescono solo a dormire e a sognare la loro nuova vita e a sognare il cibo e l’acqua che il quel momento non hanno. Dopo quattro giorni di totale isolamento scoprono di essere in carcere e che possono uscire da lì solo pagando; ovviamente non sarà così perché per pochi che avevano dei soldi e che hanno dovuto “pagare” per la loro libertà sono stati i primi ad essere mandati ai lavori.

Da giorni cerco di riflettere su questa cosa e non riesco a trovare le parole per descrivere di cosa sia capace l’uomo; si può parlare di inganno, d’ipocrisia, di meschinità e di miseria dell’anima. Un uomo che per pochi spiccioli consegna a morte certa i suoi simili; perché le carceri libiche sono qualcosa di indescrivibile, Samba ancora oggi non riesce a parlare delle atrocità che persistono in quei luoghi, riesce solo a balbettare qualche frammento che gli riaffiora per poi chiudersi tra le lacrime in un perfetto mutismo. Come può un uomo essere capace di tanto orrore?  Samba viene letteralmente incatenato al suo amico e costretti a lavorare; si dividevano un tozzo di pane al giorno e un sorso d’acqua.

A questo punto del racconto a Samba gli si bagnano gli occhi ripensando al suo amico, un omone costretto ad essere schiavo che tenta di ribellarsi a quella vita così indegna da essere chiamata tale; impazzisce, va fuori testa perché non sopporta la durezza di quella vita, così un giorno, uomini dell’esercito gli sparano perché considerato inutile e pericoloso; inutile perché l’uomo schiavo viene mantenuto in vita fino a quando è capace di svolgere il suo lavoro; pericoloso perché un uomo schiavo, e privo di senno oramai, può indurre i propri compagni “schiavi” a ribellarsi. Viene ordinato a Samba di scavare una fossa e buttarci dentro il suo amico.

Pensiamo a immaginare la simbiosi che può crearsi tra due uomini legati, letteralmente legati, giorno e notte, uomini che lavorano e dividono un tozzo di pane e un sorso d’acqua, che dividono la stanchezza, la sofferenza e la paura, uomini che dividono la stessa maledetta sorte. Proviamo a immaginare quale trauma possa subirsi ad essere costretti a seppellire l’amico in quel modo così barbaro, l’amico con cui aveva condiviso il sogno di una vita normale, l’amico con cui aveva condiviso il viaggio e la prigione.

Samba riesce a scappare dopo due o forse tre anni di prigionia (non ricorda quanto tempo è rimasto in carcere da schiavo) mentre scava la fossa, mentre è lì a trovare un briciolo di forza per scavare la buca decide di usare quel briciolo di forza per scappare. Samba ci riesce e riesce a raggiungere la costa. Non sa spiegarci come ha fatto a scappare, forse assieme a quel briciolo di forza e all’esasperazione ha trovato il coraggio di vivere o morire perché nelle carceri Libiche si è sicuri di morire, scappando forse si sopravvive. Raggiunge Lampedusa non prima di vedere naufragare altri uomini, già, perché alla tragedia umana non c’è fine. Samba aggiunge particolari che mi fanno pensare a cosa succede in quei posti. Spesso si dice che per potere partire da quelle zone bisogna pagare, ed è vero per alcuni versi, ma spesse volte succede che i prigionieri vengono caricati su quelle barche perché non più in grado di lavorare per malattia e perché si diventa delle larve; esiste poi il “mito” dello scafista che non è, come di solito sentiamo dire, un organizzatore del viaggio, ma semplicemente un altro “disgraziato” come gli altri costretto dai Libici a tenere il timone della improvvisata barca.

Quando Samba ha raccontato questa parte della sua vita ha spesso utilizzato le parole; Amico, scappare, i Libici, costretto, dividere, stanco, piangere, urlare, nascondere, picchiare, ma anche usato la parola sognare che in mezzo a tanto orrore sembra impossibile poter sognare e invece ciò che tiene in vita un uomo è la speranza che equivale a sognare e a desiderare. Queste parole ho voluto utilizzarle spesso anche io perché facendo un lavoro di Brainstorm, tempesta di cervelli, uscirebbe fuori che ognuno di noi ha il dovere, da cittadini, da uomini liberi e di buoni costumi, di impegnarci affinché cessi in questo mondo l’indifferenza e l’egoismo, il falso perbenismo, il falso mito dell’uomo nero, perché in questa terra siamo tutti figli di Dio e siamo tutti uguali con i nostri sentimenti, con i nostri sbagli e con i nostri sogni, tutta l’umanità dovrebbe essere messa nelle condizioni di perseguire i sogni, la felicità, la libertà fisica e di pensiero.

Oggi Samba vive ad Agrigento, è l’esempio di come una buona accoglienza e un piano serio di inserimento nel nostro tessuto sociale può far nascere un uomo nuovo; grazie alla sua capacità di mediatore e al suo bagaglio enorme di esperienza, è stato assunto dal centro a tempo indeterminato, dedica il suo tempo al lavoro e a risanare quella parte di vita che fin da giovanissimo gli ha fatto scoprire di cosa è capace un uomo e soprattutto può non più sognare di essere felice, ma di esserlo davvero.

 Don Vito Scilabra

Carmelo Vetro