Uno dei temi che ci sta a cuore è quello dell’affettività in carcere.
Un tema così delicato è esaltato dal fatto che i detenuti, essendo privi di libertà, non hanno la possibilità di esprimere i loro sentimenti in maniera naturale, ma devono subire una vera e propria privazione dell’istinto naturale all’amore appartenente ad ogni essere vivente.
Quando si parla di affettività, intendiamo ogni gesto ad essa collegata e quindi una carezza, uno sguardo, un bacio rivolto al proprio figlio, ai genitori, alla propria compagna e non vorremmo creare nessuno scandalo se riteniamo assolutamente legittimo che un detenuto possa avere rapporti intimi con la propria moglie o compagna e per fortuna questa prospettiva è oggigiorno accolta con una maggiore sensibilità dalla Chiesa, dal mondo politico, dalla gente comune.
Questa forma di privazione ha un impatto negativo sul detenuto da diversi punti di vista perchè soffocare gli istinti innati e incontrollabili dell’uomo provoca, oltre che la perdita della propria identità, anche ripercussioni negativi dal punto di vista salutare. Non solo, l’impatto estremamente negativo si ripercuote sul partner che si ritrova a “subire” una privazione a Lei non dovuta, ma come uno specchio, questa, patisce la stessa pena del compagno.
L’aspetto su cui ci si dovrebbe soffermare non è solo ed esclusivamente sulla consumazione dell’atto sessuale, ma bisogna riflettere sulle conseguenze negative che la negazione di esprimersi liberamente ha sull’unione familiare. Spesse volte, nella popolazione detenuta, esiste un elevatissimo numero di divorzi proprio perché il sistema penitenziario, così com’è oggi impostato, porta alla mortificazione dei rapporti affettivi e alla impossibilità di coltivarli.
Negli istituti penitenziari i colloqui avvengono per un’ora a settimana in stanze enormi con decine di famiglie che incontrano i loro cari e già questo inibisce anche ad una semplice carezza; non ha nulla del calore familiare, non riservatezza alcuna, sono rumorose ed è espressamente vietato lasciarsi andare ad una carezza, perché si viene richiamati dall’agente e in molti casi non è possibile tenere in braccio il proprio figlio.
In regime di 41bis i colloqui avvengono dietro un vetro divisorio e con la presenza dell’agente, oltre che dal controllo visivo e uditivo. Ma anche le lettere con cui tutti i detenuti cercano di coltivare i propri affetti vengono, sia in ingresso che in uscita, censurati. Lette, spulciate da agenti che hanno il compito di analizzare che tra le righe non vi siano messaggi in codice.
Spesso il luogo di detenzione è fuori dalla regione dove risiedono i familiari e perciò quell’ora di colloquio consentita, causa i disagi e spesso le difficoltà economiche, viene effettuata per una o due volte l’anno.
Questo “divorzio” dagli affetti, quindi, è davvero drammatico e non avviene solo tra coniugi, ma anche tra padri e figli, tra nonni e nipoti, tra fratelli, tra amici… e crediamo non ci sia dolore più grande che avere un padre in vita e non poterlo neanche abbracciare, essere padre e figlio, ma allo stesso tempo perfetti sconosciuti.
Da sacerdote attento all’essere umano ho da sempre avuto a cuore, in particolare modo, l’uomo inteso come carcerato e ho sempre manifestato la volontà di conoscerli, incontrarli, ascoltarli e dare loro una parola di conforto. Per tale motivo conoscendo le sezioni dell’Alta Sicurezza o del regime differenziato di cui all’art. 41bis (definito “carcere duro”) e accogliendo detenuti in permesso premio, saprei benissimo descrivere quali sono le tante illogicità che oramai fanno parte, più che delle leggi, delle regole non scritte impresse nel modus operandi dei vari Magistrati che a volte decidono senza alcuna consapevolezza di cosa sia il carcere.
Eppure, con la riforma penitenziaria del 1975 si dava attuazione all’articolo 27 Cost. «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Pensate, principio costituzionale pensato e scritto dai nostri padri costituenti e rimasto inattuato sostanzialmente dal 1948 e aveva il chiaro significato di rompere con il vecchio sistema fascista che vedeva nell’espiazione della pena esclusivamente un fine punitivo.
Per questo è inaccettabile, oltre che vergognoso, che in un Paese come l’Italia democratico e liberale quel principio rimanga solo sulla Costituzione e in rarissimi casi viene messo in pratica, tutto è rimesso all’ampia forbice di discrezionalità del Giudice.
Il nostro intendo non è polemizzare, ma attirare l’attenzione verso un mondo la cui realtà è spesso diversa rispetto a quanto previsto dall’ordinamento penitenziario.
Ma dovremmo indignarci se per arrivare ad una svolta significativa, dobbiamo attendere, paradossalmente, che l’Italia venga condannata per i trattamenti inumani e degradanti da parte della Corte Europea che chiedeva, al Governo italiano, di introdurre un istituto giuridico che poteva dare, ai rapporti familiari, l’importanza che hanno, anche in vista di un positivo reinserimento nella società del condannato e per fare in modo che specie i figli piccoli non subissero il trauma di incontrare il genitore in luoghi davvero angusti.
Teniamo a sottolineare che non siamo a favore “delle stanze del sesso” come volgarmente sono state etichettate, ma siamo più che favorevoli affinché possano crearsi dei luoghi, riservati, dove potere mantenere inalterata l’armonia del nucleo familiare.
Per tale ragione sono stati introdotti, nel 2015, gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale che ha coinvolto Magistrati, giornalisti, esponenti politici, il mondo del volontariato, ma anche i detenuti ristretti presso il carcere di Padova.
Anni di intenso lavoro per arrivare ad una proposta che desse, all’Europa, l’idea che l’Italia fosse davvero un Paese democratico e civile.
Ma la questione è stata accantonata dalla riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018.
E pensare che è dal 1999 che in varie occasioni si è tentato di riformare il sistema penitenziario, senza mai riuscirci.
Anche per questa radicata resistenza, numerosi e numerose esperte parlano di una «silente, ma indiscutibilmente consapevole, volontà del legislatore tesa a impedire l’emersione del diritto»
Un’altra importante iniziativa è stata avviata dal viaggio nelle carceri dei Giudici Costituzionali. Qualcosa da potere definire epocale considerando il fatto che era la prima volta in assoluto, da quando è nata la Repubblica, che sette Giudici delle Leggi si recassero in prima persona nelle carceri.
Un incontro tra due umanità, entrambe “chiuse” dietro un muro e apparentemente agli antipodi: da un lato la legalità costituzionale, dall’altro lato l’illegalità, ma anche la marginalità sociale. Attraverso la fisicità, l’ascolto, il dialogo, il Viaggio diventa occasione di uno scambio reciproco di conoscenze, esperienze, e talvolta di emozioni. Ma è anche la metafora di un linguaggio che non conosce muri, e che anzi li attraversa, perché è il linguaggio (ritrovato e condiviso) della Costituzione, la casa di tutti, soprattutto di chi è più vulnerabile.
Il viaggio della Corte nelle carceri italiane non nasce dall’acquisita consapevolezza di trasmettere quei valori di integrazione e di dignità degli individui, principi che stanno tutti nella Costituzione e di trasmettere la loro concretezza, al di là delle torsioni del gioco politico e dei suoi tatticismi su valori costituzionali non negoziabili.
Il carcere è, in questo senso, uno dei luoghi più carichi di significati perché proprio lì, attraverso la Costituzione la democrazia offre la scena dello scambio simbolico tra Stato e comunità, rinnovando le intuizioni più profonde sui valori sociali dell’uguaglianza e della funzione rieducativa della pena nel rispetto della persona umana e della sua dignità.
11/12/2020
Sac. Antonino Scilabra
Carmelo Vetro