3/21 La libertà…assai vigilata…

Oggi vorremmo affrontare un argomento molto delicato e cercheremo la formula più adatta per far comprendere che solo ed esclusivamente in Italia esistono le cosiddette pene accessorie quali: la Sorveglianza speciale e la libertà vigilata, solitamente applicate a seguito di condanna e dopo un periodo di detenzione più o meno lungo.

Diamo un breve cenno su cosa prevedono questi due istituti per far comprendere perché parliamo di stravolgimento totale della vita: la sorveglianza speciale prevede che una persona stabilisca la propria residenza in un comune entro la quale muoversi. Non potrà uscire di casa entro un dato orario mattutino e dovrà rincasare in molti casi anche alle 18. Inoltre, gli sarà sospesa la patente di guida, gli sarà fatto divieto di frequentare luoghi affollati, dovrà essere reperibile in qualsiasi momento della giornata per le forze dell’ordine e sarà soggetto a controlli notturni mirati ad assicurarsi che non esca dalla propria abitazione in orari non consentiti.

Stesse regole valgono per la libertà Vigilata, ma in più i soggetti sottoposti a tale misura di prevenzione, hanno l’obbligo di presentarsi in caserma anche più volte al giorno per apporre la propria firma su un registro di controllo.

Dunque, è possibile immaginarsi come di colpo la propria vita possa essere “sospesa” e ritrovarsi a vivere un calvario, limitato della propria libertà e la serenità di un’intera famiglia compromessa, specie nelle ore notturne.

Il ragionamento a cui ci ancoriamo è quello di volere capire perché, se esistono all’interno del nostro ordinamento simili pene accessorie, non si predisponga un sistema per cui l’accertamento “dell’attualità della pericolosità sociale” sia fatta in maniera capillare e soprattutto attuale. Diciamo questo perché molto, molto spesso i vari Tribunali nell’accertare l’attualità della pericolosità sociale si rifanno a relazioni storiche e stereotipate della Questura, Tenenza dei carabinieri, Dia, Dda…che molto spesso non possono essere considerate utili ai fini dell’accertamento della pericolosità perché si limitano a narrare la storia processuale del soggetto senza tenere conto del lasso di tempo che ha trascorso in carcere o della positiva  evoluzione intra ed extra muraria, infatti, non si valutano elementi che comunque sono indicatori significativi per capire la tipologia di vita che quel determinato soggetto conduce dal momento in cui viene scarcerato.

In Italia si tende a utilizzare il ricatto della collaborazione con la Giustizia o della dissociazione come unico metodo per potere considerare “cambiata” la persona. Ma più volte la Suprema Corte si è espressa chiarendo che la collaborazione non è il solo ed esclusivo indice da valutare, molte volte infatti la persona decide di non collaborare per paura di ritorsioni nei confronti dei propri familiari, perciò si accetta di soccombere al giudizio negativo da parte dei vari Tribunali giudicanti, senza la possibilità di dimostrare che l’allontanamento da qualsiasi logica delinquenziale può avvenire in altre mille forme.

Riportiamo un breve stralcio dell’ennesima ordinanza di rigetto da parte di un Tribunale siciliano: <<Non ha manifestato successivamente alla sua scarcerazione alcun comportamento, né ha reso alcuna dichiarazione, dai quali desumere la dissociazione del medesimo dal vincolo che lo ha per gran parte della sua vita legato a tale sodalizio criminoso>> ed ancora << durante il lasso di tempo trascorso dall’applicazione della misura (un anno e sei mesi a fronte dei tre anni previsti) sebbene il prevenuto si sia prodigato per la ricerca di un’attività lavorativa stabile per ricostruire una vita all’insegna della legalità e, pur se rispettoso dei limiti della sua libertà personale posti dalla misura della sorveglianza speciale, non ha posto in essere alcuna condotta indicativa di un reale cambiamento assistenziale da leggersi quale autentica rescissione del legame con la famiglia mafiosa alla quale è stato accertato appartenere>>

<< …ai fini della revoca della misura in atto il prevenuto avrebbe dovuto, nelle forme a lui più congeniali, manifestare la sua assoluta distanza dell’associazione mafiosa>>

Dagli stralci sopra riportati appare del tutto evidente come il Giudice abbia formato il proprio convincimento solo ed esclusivamente mediante l’applicazione di regole presuntive nate dal principio del “semel mafioso semper mafioso” che tradotto in siciliano significa <<cu nasci mafiusu mori mafiusu>> metodo di accertamento ormai rifiutato dalla giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite, ma rifiutata anche dai siciliani in generale.

Sappiamo che leggere un articolo del genere è pesante perché richiede impegno, sensibilità e immedesimazione, ma è utile ai fini della comprensione di ciò che parliamo; l’ordinanza riportata è recentissima, narra fatti risalenti a oltre un decennio fa quando la persona in questione aveva 26 anni, ha trascorso 7 anni e due mesi in stato di detenzione, ha subito il 41 bis, revocato poi per l’illegittimità ex tanc del provvedimento, ha intrapreso un percorso risocializzante di rilievo come dimostrato dalle numerose relazioni dell’equipe trattamentali dei vari istituti in cui è stato detenuto (vari istituti del nord Italia) e un percorso universitario notevole. Ad oggi lavora e si dedica al volontariato. Ma nonostante tutto, per i Giudici non è mai abbastanza.

 

Buona meditazione!

Sac. Antonino Scilabra 

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