L’importanza delle persone detenute, ai loro diritti e delle parole che intorno a quei diritti si pronunciano è il filo conduttore che lega quei luoghi di sofferenza con la Chiesa, con le istituzioni e con il mondo,cosiddetto, civile.
Perché non solo “le parole fanno le cose” come direbbe Foucault ma la loro
indeterminatezza può ledere diritti: la sottovalutazione delle parole usate
all’interno delle norme apre al rischio di debolezza dell’intero sistema normativo.
Espressioni quale «locale idoneo» dove una persona può essere trattenuta o
attenuazioni quale «ove possibile» nel riferirsi alla garanzia di condizioni
materiali di detenzione rispettose della dignità personale vorremmo
appartenessero al passato, ed invece sono drammaticamente attuali.
Il Garante Nazionale dei detenuti ci ricorda che il mondo dei luoghi di
privazione della libertà non è luogo “altro” ma ci appartiene; <<quei
muri e quei cancelli indicano soltanto una separazione temporale dovuta a
esigenze di tipo diverso, che possono aver determinato la restrizione della
libertà>>.
Il carcere appunto è un luogo di cui nessun cittadino dovrebbe sentirsi
lontano, la separazione sociale contribuisce a far formare quell’idea
collettiva molto diffusa che chi sbaglia debba essere rinchiuso e le chiavi
buttate via.
Dovremmo pensare all’assolutezza del diritto, alla dignità di cui ogni
persona, pure ristretta, è portatrice, nonché l’inviolabilità fisica e psichica
di ogni essere umano qualunque sia la sua colpa, la sua debolezza, il suo
doloroso bagaglio. Parlare oggi di inviolabilità dei corpi (e delle anime)
delle persone ristrette e dunque nelle mani dello Stato, dopo aver visto le
indecenti immagini dei pestaggi e delle torture ai danni dei detenuti nel
carcere di Santa Maria Capua a Vetere, appare incredibilmente necessario.
E se quei luoghi, quelle persone “ci appartengono” dobbiamo porci il
problema del dentro ma anche del domani e del fuori, perché quelle persone
prima o poi usciranno. E quasi mai però, viste le carenze sistemiche
evidenziate nella relazione, potranno uscirne migliorate.
E non tutti, peraltro, usciranno vivi. Nel 2020 sono stati 62 i suicidi.
Per la nostra APS (associazione promozione sociale) è solito accostare i
diritti dei detenuti ai diritti degli immigrati perché essendo un’associazione
con orientamento cattolico ci sta a cuore essere vicini a chi si trova ai
margini sociali.
Ci torna in mente la storia di Moussa Balde, un ragazzo sbarcato dalla Guinea
morto suicida a 23 anni.
<<Sono dovuto andare via dal mio paese dove la situazione era
diventata troppo difficile, vorrei restare in Italia, in questo paese ho avuto
un assaggio di come la vita può essere bella, voglio studiare per poter trovare
un buon lavoro>> ecco come immaginava la sua vita in Italia. Moussa è
morto suicida perché depresso e relegato ai margini sociali per via di un
meccanismo, quello dell’accoglienza, che a volte, inceppandosi nelle maglie
burocratiche, non riesce a esprimere la sua vera funzione: accogliere per dare
speranza.
Buona meditazione!
Don Vito Scilabra
Carmelo Vetro