11.2021 A proposito di… Diritti umani

L’importanza delle persone detenute, ai loro diritti e delle parole che intorno a quei diritti si pronunciano è il filo conduttore che lega quei luoghi di sofferenza con la Chiesa, con le istituzioni e con il mondo,cosiddetto, civile.

Perché non solo “le parole fanno le cose” come direbbe Foucault ma la loro
indeterminatezza può ledere diritti: la sottovalutazione delle parole usate
all’interno delle norme apre al rischio di debolezza dell’intero sistema normativo.
Espressioni quale «locale idoneo» dove una persona può essere trattenuta o
attenuazioni quale «ove possibile» nel riferirsi alla garanzia di condizioni
materiali di detenzione rispettose della dignità personale vorremmo
appartenessero al passato, ed invece sono drammaticamente attuali.

 

Il Garante Nazionale dei detenuti ci ricorda che il mondo dei luoghi di
privazione della libertà non è luogo “altro” ma ci appartiene; <<quei
muri e quei cancelli indicano soltanto una separazione temporale dovuta a
esigenze di tipo diverso, che possono aver determinato la restrizione della
libertà>>.

Il carcere appunto è un luogo di cui nessun cittadino dovrebbe sentirsi
lontano, la separazione sociale contribuisce a far formare quell’idea
collettiva molto diffusa che chi sbaglia debba essere rinchiuso e le chiavi
buttate via.

Dovremmo pensare all’assolutezza del diritto, alla dignità di cui ogni
persona, pure ristretta, è portatrice, nonché l’inviolabilità fisica e psichica
di ogni essere umano qualunque sia la sua colpa, la sua debolezza, il suo
doloroso bagaglio. Parlare oggi di inviolabilità dei corpi (e delle anime)
delle persone ristrette e dunque nelle mani dello Stato, dopo aver visto le
indecenti immagini dei pestaggi e delle torture ai danni dei detenuti nel
carcere di Santa Maria Capua a Vetere, appare incredibilmente necessario.

 

E se quei luoghi, quelle persone “ci appartengono” dobbiamo porci il
problema del dentro ma anche del domani e del fuori, perché quelle persone
prima o poi usciranno. E quasi mai però, viste le carenze sistemiche
evidenziate nella relazione, potranno uscirne migliorate.

E non tutti, peraltro, usciranno vivi. Nel 2020 sono stati 62 i suicidi.

 

Per la nostra APS (associazione promozione sociale) è solito accostare i
diritti dei detenuti ai diritti degli immigrati perché essendo un’associazione
con orientamento cattolico ci sta a cuore essere vicini a chi si trova ai
margini sociali.

Ci torna in mente la storia di Moussa Balde, un ragazzo sbarcato dalla Guinea
morto suicida a 23 anni.

<<Sono dovuto andare via dal mio paese dove la situazione era
diventata troppo difficile, vorrei restare in Italia, in questo paese ho avuto
un assaggio di come la vita può essere bella, voglio studiare per poter trovare
un buon lavoro>>
ecco come immaginava la sua vita in Italia. Moussa è
morto suicida perché depresso e relegato ai margini sociali per via di un
meccanismo, quello dell’accoglienza, che a volte, inceppandosi nelle maglie
burocratiche, non riesce a esprimere la sua vera funzione: accogliere per dare
speranza.

 

Buona meditazione!

 

Don Vito Scilabra

Carmelo Vetro 

10/2021 A proposito di…Riforma penitenziaria

La riforma del sistema penitenziaria deve contenere un’idea che metta al centro del detenuto la sua riabilitazione e non una vera e propria segregazione.

La tortura, mascherata con il nome di “perquisizione”, è oggi una delle più ignobili violenze che si possa perpetrare verso un uomo, così come di tortura fisica si può parlare nel violento pestaggio avvenuto poco più di un anno fa nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

In questo ultimo caso, però, fatte salve le esitazioni e le minimizzazioni dei leader sempre dalla parte del manganello, la reazione della politica nelle sue più alte espressioni è stata all’altezza della situazione, non solo condannando senza appello l’accaduto, ma mostrando consapevolezza della necessità di cambiare la realtà carceraria affinché non possa ripetersi.

Si attribuisce al sovraffollamento la gravissima disfunzione del sistema penitenziario. Si tratta indubbiamente di un fattore che ingigantisce ed esaspera i problemi, rendendo da un lato difficilmente governabile la vita intramuraria, dall’altro favorendo contesti in cui la pena – in aperta violazione della Costituzione – diviene trattamento contrario al senso di umanità.

Ma se pensassimo di risolvere il problema, come da più parti si auspica, semplicemente costruendo nuovi penitenziari, ci ritroveremo a dovere pagare delle penali considerato che Il Consiglio d’Europa ha da tempo ammonito l’Italia: aumentare la capienza penitenziaria, significa soltanto favorire un maggior ricorso alla carcerazione.

Se alla pena detentiva si assegna il compito di punire con una privazione di libertà che offra anche opportunità – di cui il condannato deve mostrarsi all’altezza – di riabilitazione sociale, il carcere allora dovrebbe assomigliare il più possibile a un microcosmo sociale, a un villaggio chiuso in cui vive una comunità che lavora, studia, segue corsi professionalizzanti, si impegna in attività artistiche e sportive, rispetta regole di convivenza, riceve visite dall’esterno. Una realtà che non desocializza, ma che rieduca alla corretta socialità. Una realtà in cui al detenuto si offrono molte occasioni per prepararsi al rientro in società con la capacità di svolgere un lavoro e recuperando i propri rapporti affettivi che l’esperienza carceraria non avrà reciso. Ma anche una realtà in cui dal condannato si deve pretendere molto come l’0impegno nello studio e nel lavoro, osservanza delle regole, rispetto del personale di polizia, degli operatori e degli altri detenuti. Ove invece non si mostrasse meritevole di vivere correttamente neppure in questo microcosmo sociale, la pena recupererebbe la sua connotazione meramente punitiva.

Abbracciata questa ideologia della pena, l’edilizia penitenziaria non dovrebbe tanto essere incrementata, quanto essere profondamente ripensata in modo che i detenuti debbano responsabilmente gestire un proprio spazio abitativo e condividere ambienti comuni di lavoro, di studio, di impegno artistico e sportivo.

Sono cambiamenti che non si improvvisano e che, soprattutto, richiedono determinazione politica, disponibilità di risorse economiche e di tempo.

Occorre responsabilità del detenuto appunto,  in pochi istituti penitenziari esiste la sorveglianza dinamica per dare corso a questa responsabilità (cioè: l’apertura delle celle per circa 12 ore al giorno)  e queto non è che un modo per dare applicazione alla normativa vigente secondo cui le celle devono essere camere di pernottamento, ma non può risolversi nella mera ‘espulsione’ dei detenuti dalle celle: le ore fuori della camera dovrebbero essere impiegate in attività, svolte in strutture adeguate, per la preparazione del futuro sociale del condannato, che ne consentano una più significativa osservazione della personalità e del comportamento; non certo risolversi nell’apatico e insulso attardarsi in un corridoio ( la cosiddetta sezione) o in un cortile che assomiglia a un enorme pozzo.

Una privazione della libertà che prepari alla libertà presuppone certamente personale (polizia penitenziaria, funzionari, operatori psicopedagogici, volontari) di elevata professionalità, organizzazione funzionale allo scopo, strutture architettoniche adeguate, sinergie con gli enti locali; ma richiede, soprattutto, che nel sentire comune si affermi l’idea che tutto ciò farebbe bene alla sicurezza sociale e alla qualità della convivenza civile, drenando così l’acqua dal pantano della paura in cui affondano le idrovore del più rozzo populismo. Prima di ricostruire le carceri abbiamo bisogno di ricostruire la nostra fatiscente cultura della pena.

Buona meditazione!

Don Vito Scilabra

 

Carmelo Vetro