Nel chiederci cosa scrivere sul nostro settimanale, su una delle tante attività in cui il centro è impegnato o su una delle tante storie, che fanno orrore solo ad ascoltarle e immaginare di cosa sia capace l’uomo, ci siamo imbattuti su alcune storie di “emarginati” degli ultimi che in comune hanno la morte.
La prima riguarda Vakhtang, un ragazzo di 37 anni georgiano morto all’interno di un Cpr; il suo rimpatrio era già stato programmato, poi annullato e poi, per cause da accertare, viene trovato morto.
La seconda riguarda il carcere di massima sicurezza di Voghera con l’ennesimo suicidio di un detenuto, che probabilmente se trattato con più umanità e attenzione avrebbe potuto evitare quel gesto estremo.
Quello che fa strano è che alcuni quotidiani riportano la notizia del suicidio in tre righe per scrivere poi due pagine sulla storia “criminale” del soggetto, come a giustificare il fatto che a morire è stato un detenuto, quindi uno che se l’è cercata. Eppure questa persona era in carcere da otto mesi e non aveva subito nessuna condanna e perciò, esistendo ancora la presunzione di innocenza, avrebbe potuto risultare innocente.
Mi piace quello che a proposito è stato scritto sul Riformista da Criaco, ma voglio aggiungere che in carcere si perde la dignità, si perde la ragione, si perde anche quando si è innocenti.
C’è poi la storia di Angelo. Un senzatetto, uno dei tanti sparsi in tutto il mondo. È morto ad Avellino all’interno del mercato ortofrutticolo. Era un padre, era un marito ed era uno al quale la vita non ha voluto regalare un’altra possibilità; quella vita così ostinatamente testarda che a volte, pure se tu la coccoli, pure se vuoi parlarci e dirgli: “Guardami, io ci sono, Voglio mettercela tutta per sfatare i luoghi comuni e dimostrare che non è vero che solo perché immigrato non sono dotato di moralità, o perché detenuto non ho alcun diritto, neanche di campare o perché sono un senzatetto tu non debba sorridermi e ridarmi la dignità, che ogni essere umano non dovrebbe mai perdere.
Mi chiedo come sia possibile stare a guardare indifferenti, come sia possibile, davanti a realtà del genere (che spesso cerchiamo o fingiamo di ignorare), anteporre ciò con cui il destino ha etichettato questi uomini: immigrato, carcerato, senzatetto, giustificando inumanamente fatti, che se fossero successi ad “altri” avrebbero trovato spazio nelle prime pagine dei più importanti quotidiani.
Don Vito Scilabra
Carmelo Vetro