Articolo 2/2020


Nel chiederci cosa scrivere sul nostro settimanale, su una delle tante attività in cui il centro è impegnato o su una delle tante storie, che fanno orrore solo ad ascoltarle e immaginare di cosa sia capace l’uomo, ci siamo imbattuti su alcune storie di “emarginati” degli ultimi che in comune hanno la morte.
La prima riguarda Vakhtang, un ragazzo di 37 anni georgiano morto all’interno di un Cpr; il suo rimpatrio era già stato programmato, poi annullato e poi, per cause da accertare, viene trovato morto.
La seconda riguarda il carcere di massima sicurezza di Voghera con l’ennesimo suicidio di un detenuto, che probabilmente se trattato con più umanità e attenzione avrebbe potuto evitare quel gesto estremo.
Quello che fa strano è che alcuni quotidiani riportano la notizia del suicidio in tre righe per scrivere poi due pagine sulla storia “criminale” del soggetto, come a giustificare il fatto che a morire è stato un detenuto, quindi uno che se l’è cercata. Eppure questa persona era in carcere da otto mesi e non aveva subito nessuna condanna e perciò, esistendo ancora la presunzione di innocenza, avrebbe potuto risultare innocente.
Mi piace quello che a proposito è stato scritto sul Riformista da Criaco, ma voglio aggiungere che in carcere si perde la dignità, si perde la ragione, si perde anche quando si è innocenti.

C’è poi la storia di Angelo. Un senzatetto, uno dei tanti sparsi in tutto il mondo. È morto ad Avellino all’interno del mercato ortofrutticolo. Era un padre, era un marito ed era uno al quale la vita non ha voluto regalare un’altra possibilità; quella vita così ostinatamente testarda che a volte, pure se tu la coccoli, pure se vuoi parlarci e dirgli: “Guardami, io ci sono, Voglio mettercela tutta per sfatare i luoghi comuni e dimostrare che non è vero che solo perché immigrato non sono dotato di moralità, o perché detenuto non ho alcun diritto, neanche di campare o perché sono un senzatetto tu non debba sorridermi e ridarmi la dignità, che ogni essere umano non dovrebbe mai perdere.

Mi chiedo come sia possibile stare a guardare indifferenti, come sia possibile, davanti a realtà del genere (che spesso cerchiamo o fingiamo di ignorare), anteporre ciò con cui il destino ha etichettato questi uomini: immigrato, carcerato, senzatetto, giustificando inumanamente fatti, che se fossero successi ad “altri” avrebbero trovato spazio nelle prime pagine dei più importanti quotidiani.

Don Vito Scilabra
Carmelo Vetro

Articolo 1/2020

Sapere aude!
Il titolo è un’esortazione latina che significa “abbi il coraggio di essere saggio”
Tale espressione la rese famosa il filosofo Kant, che ne fa il motto dell’Illuminismo, considerato come: l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto. Imputabile a sé stessa è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto.
Facevo questa riflessione e osservavo in quale direzione stiamo andando sia come singoli cittadini che come popolo; Viviamo un momento dove il consumismo, l’ipocrisia, l’egoismo non ci fa accorgere che accanto a noi ci sono uomini che soffrono e perciò mi sovviene una giornata di studi, conclusasi nel carcere di Padova in collaborazione con l’Università, dal titolo: La società del non ascolto.
Quella giornata era dedicata principalmente ai detenuti che, per il solo fatto della loro condizione di ristrettezza, vengono relegati ai margini e abbandonati al loro destino.
Oggi vorrei affrontare il tema cercando di individuare a chi dovremmo prestare, almeno pochi minuti al giorno, ascolto.
Da pochi mesi, mi è stata accordata la possibilità di svolgere attività di volontariato presso un centro di ascolto e accoglienza per immigrati e da subito mi sono accorto che queste persone vivono una tragedia più grande, ma anche molto simile, a quella di un detenuto, ma soprattutto ho scoperto un mondo che non potevo immaginare; da un lato ho conosciuto alcuni ragazzi perfettamente inseriti nella nostra società, dall’altro ci sono storie che difficilmente si riescono a scrivere per la loro drammaticità.
Ho conosciuto poi le ragazze che gestiscono il centro, ragazze giovani che hanno una loro idea, una loro consapevolezza, una loro sensibilità ai temi legati agli “emarginati”; loro sono l’emblema di chi sa prestare ascolto e ogni giorno fanno loro le necessità di ogni singola persona che chiede supporto che siano immigrati, detenuti, ex detenuti…….
Ognuno di noi ha una idea (o crede di averla) su cosa sia l’immigrazione, su come trattare un detenuto e troppe volte si arriva alla conclusione che entrambe le “categorie” siano il male assoluto; la nostra idea nasce da quello che i mass media, i politici ci propinano e ci spacciano come verità.
Questo succede in una società che non sa ascoltare; sentire non significa ascoltare e solo quando ci si avvicina per davvero a questi due mondi (il carcere e l’immigrazione) si può essere in grado di sviluppare dentro di noi una idea che abbia come presupposto la voglia di volere capire mettendoci nella condizione di cambiare idea.
Non ascoltando, e assecondando solo i luoghi comuni, rischiamo di venire trasformati da essere pensanti a perfette marionette.
Ascoltare attivamente consente di metterci nei panni dell’altro, di riconoscere e accettare un altro punto di vista, sentire le sue emozioni in totale assenza di giudizio (o pregiudizio). Per converso non potremo parlare di ascolto se facciamo l’errore di limitarci semplicemente a sentire le parole del nostro interlocutore; al messaggio, dovremo aggiungere le informazioni che possiamo ricevere attraverso la vista cercando di cogliere ulteriori segnali di congruenza rispetto a ciò che ascoltiamo. Non è spicciola filosofia affermare che quando parliamo, con gli occhi o con il movimento del nostro corpo diciamo più di quanto non facciano le parole.
Dunque, facciamo un esperimento, fermiamoci un attimo dalla frenesia che ci ingloba e proviamo ad ascoltare l’urlo d’aiuto di chi ci sta vicino, deponiamo l’arma dell’egoismo e potremo scoprire che non tutte le certezze che crediamo di avere rispecchiano la verità, ma soltanto UNA verità.
Abbiamo, tutti noi, il coraggio di essere saggi!

Carmelo Vetro